Portare la luce dall’oscurità, far emergere ciò che
soggiace, perché, come ben sai, la luce non ha senso senza l’oscurità.
Questo il tema
profondo del secondo incontro di mandala meditativo. Impegnativo, intimo,
atavico e per me quasi impossibile.
Sono più abituato a coprire la luce con l’oscurità. Più
bravo a negare che far emergere. E questo la dice lunga su chi sia io oggi. Molto
interessante.
Iniziamo con una “meditazione ritmica”. Ognuno ha uno
strumento percussivo, e, emulando il battito del cuore, viaggiamo ad occhi
chiusi dentro di noi e indietro, fino a ricordare gli albori dei tempi. Terre
vulcaniche e fuochi, caverne umide e belve feroci, primordiale vegetazione e
misteri inspiegabili. Tu-tum, tu-tum , tu-tum. Daniela propone una frase da
masticare durante la meditazione ma io non riesco a seguire le parole perché sono
nel battito, nel ritmo, nella regressione antropologica. Non è la prima volta
che mi ritrovo a sentire con forza e trasporto questa connessione potente ed
intima con l’origine dell’uomo.
Ritorniamo dal “viaggio” e siamo pronti per “mandalare”.
Oggi utilizzeremo una tecnica particolare; il carboncino o fusaggine. Si tratta
di gessetti neri, cenerosi, con i quali coloreremo un cerchio. Deve essere
completamente nero, aiutandosi anche con le dita.
Noto una certa
soddisfazione nel riempire il cerchio di un nero profondo e concentrato. il
timido bianco rugoso del foglio sottostante sparisce ad una velocità pazzesca
(che poi si contrappone alla lentezza del portare alla luce) e ritorno un po’ bambino
nel sporcarmi prima di tutti il 90% della superficie delle mani. C’è chi usa un
solo polpastrello, chi la punta delle dita e chi qualche dito insieme per
spargere la grafite. Io, uso tutta la mano da palmo a falange. Sia la sinistra
che la destra.
E nel foglio bianco appare questa sfera nera, una luna in
completa eclisse che suscita in me un certo fascino. Creata l’oscurità è nostro
compito riportare la luce.
A differenza di molte altre tecniche di disegno qui la
dinamica è al contrario: per completare, per creare, non devo aggiungere ma togliere.
Molto interessante il doppio rimando di quest’attività: per poter realizzare il
mandala bisogna togliere, rinunciare alla pienezza del nero per arrivare all’apparente
vuoto del foglio bianco.
Rinunciare per scoprire cosa emerge. E anche nella vita, per evolvere, per andare avanti e conoscere il nuovo bisogna sempre rinunciare a qualcosa.
Non posso non pensare ad un concetto filosofico a me caro: per poter vivere pienamente bisogna riguadagnare la luce dello spirito
oscurato dalla compenetrazione con la materia.
E’ qui che meditazione, proprio-cezione e creatività s’
incontrano in un circolo “mandalico” potentissimo ed è proprio qui che io e
Daniela vorremmo portare ad ogni incontro i partecipanti. Senza troppe
spiegazioni, anticipazioni o cornici descrittive. Trovarsi a contatto con se
stessi attraverso l’azione e semplicemente prendere nota di ciò che accade. O
no. Potersi sentire nel momento e vivere la metafora del sentirsi attraverso
una rappresentazione è il segreto dell’arte ed è il segreto dell’uomo. Intendo
ora come si sia sviluppata questa capacità tutta umana; nata come un esigenza
per dare forma a misteri tanto inspiegabili si è poi evoluta come possibilità
di trasformare lo sconosciuto in conosciuto. Da qui i simboli e tutte le forme
d’arte che ora per me assumono un nuovo significato: la rappresentazione dell’uomo
nei suoi molteplici aspetti.
Nel mio caso, non sono riuscito a portare luce nella mia
oscurità. Il nero ricopriva velocemente i pochi sprazzi di bianco che riuscivo
a guadagnare con i miei polpastrelli luridi, che da una parte spostavano i
piccoli granuli di carbone per poi farli tornare con un'altra ditata. Tutti gli
altri partecipanti invece, in diverse forme, riuscirono senza difficoltà a far
emergere la luce giocando con “l’ombra” nel creare alberi, fenici e motivi
geometrici.
Io basito, insisto, tolgo e aggiungo, mi sporco, ci riprovo
ma non emerge niente. Il nero ritorna in un grigio sporco che racconta quanto
sia ancora imprigionato nella mia di oscurità, nei miei limiti e nelle mie
credenze erronee. Il mio potenziale, la mia energia vitale, la mia luce ancora
è nascosta dal nero delle mie paure e della mia insicurezza.
E alla fine emerge qualcosa: un mostro marino, un “polipone”
forse. Una serie di linee curve che a qualcuno ricordano un simbolo tribale. A
me non piace ciò che è emerso ma non importa. E’ significativo che mi ci
riconosca perché è uno specchio nitido di chi e dove sia adesso.
E' confortante sapere che dietro l’oscurità, per quanto
spessa e per quanto difficile da scansare, c’è sempre luce. A volte troppa.