giovedì 27 ottobre 2016

LA FIDUCIA DELLO SCONOSCIUTO

Continuano  giorni intensi, nuvolosi, carichi di pioggia e di emozioni. Sono stanco, a tratti nervoso perché mangio di fretta e dormo poco ma il prezzo da pagare per quello che ottengo in cambio è più che equo. Questo è il mio autunno, ricco, colorato, pieno di sorprese e momenti magici. Momenti come quello di ieri sera, alla Corte Dalì. Primo incontro per il laboratorio di scrittura creativa del quale sono co organizzatore e partecipante. Ritrovare un gruppo dopo gli anni del teatro  è stato stupendo: un salto nel passato, dove un Ivano 21enne si buttava in cerchio tra sconosciuti con un sorrisone de ebete. Supportati e guidati dalla sapiente voce della cugi, 7 estranei (o più o meno conoscenti) si sono presi per mano, abbracciati, lasciati condurre, osservati, salutati. Abbiamo condiviso risate, sensazioni e parole intime anche quando di intimo non si voleva (razionalmente) condividere nulla.

Mi rendo conto che il contatto tra le persone sia fisico che emozionale è troppo assente nella nostra società. Dipendesse da me farei fare esercizi di attivazione e connessione a tutte le aziende, a tutte le famiglie e a qualsiasi tipo di gruppo, almeno una volta alla settimana.
Questo lasciarsi andare nel flusso di energia che ogni corpo emana, questo respiro collettivo tanto intimo quanto universale è molto appagante. C’è una commistione di rischio (nel mettersi in gioco) e di fiducia (toccando e facendosi toccare dall’altro). Un dialogo tra anime, tra muti esseri divini, dove ci si riconosce subito come simili.

Ieri, ovviamente, io ero in ansia. La prima volta che mi specchiavo non solo come partecipante ad un progetto ma anche come referente. Sentivo comunque una buona energia e sapevo che almeno da parte mia, l’avrei vissuta bene. Speravo tanto che anche gli altri partecipanti fossero colpiti da questo bel progetto e invogliati a tornare. Un po’ imbarazzato, sudaticcio, con il cuore che batteva sempre forte e scandiva ogni istante, mi sono incontrato tra gli sguardi, le mani, le voci, il respiro ed è stato un viaggio breve ma intenso, mi sono riappropriato della parte più umana e magica.
Senza tante parole sono entrato in sintonia con queste persone, queste anime che provengono da posti diversi, che erano lì per motivi diversi e vedono il mondo probabilmente in una maniera diversa dalla mia. Ma quello che sempre mi stupisce e mi fa capire che veramente siamo gocce dello stesso oceano è la facilità con la quale si può entrare in connessione. Dopo un’ ora quegli estranei erano compagni di viaggio. Il contatto con le loro mani mi ha raccontato parte del loro essere, gli sguardi da curiosi sono diventati complici, i movimenti più fluidi, i sorrisi più caldi.

Tanto può essere differente la forma e quanto simile la sostanza.

Tutto il lavoro di riscaldamento e di contatto con sé stessi e con gli altri è sfociato poi nel momento della scrittura che è stato esattamente come suggerisce il titolo del laboratorio: creativa. Da un momento di osservazione, di meditazione su un qualsiasi oggetto della stanza, ognuno ha creato un’ode: chi di un temperamatite, chi di un ramo, un calorifero, una matita, un disegno sul muro. Utilizzare un oggetto banale, guidati da chi sa guidare ovviamente, per scoprire che ciò che utilizziamo senza pensarci il più delle volte,  ha una sua storia, ha un’origine, ha uno spazio e una relazione con chi lo utilizza e chi lo ha creato. Per ognuno degli oggetti di uso quotidiano si potrebbero scrivere pagine e pagine.

Ed ognuno ha scritto qualcosa di intimo, di piacevole, di valido dal punto di vista tecnico-letterario e soprattutto  vero. Almeno per me. Ed è questo concetto di verità che continua a ronzarmi nella testa: forse il termine non è corretto ma mi piace. Esprimere le proprie verità che sono tante e uniche per ognuno di noi è uno dei più bei doni si possa fare all’altro. Ascoltando queste odi, mi sono sentito gratificato da tanti regali. Persone che, per la maggior parte conoscevo da un’ora, mi hanno donato senza indugio, generosi, un pezzettino di chi sono ed io mi sento più integro, più completo, più comodo e accolto in questo mondo nel quale spesso mascheriamo la bellezza e la semplicità con rigide e fredde strutture.

Il condividere, non attraverso la parola (con la quale possiamo nasconderci o costruire maschere), ma attraverso il corpo, i sensi e le emozioni, sono esperienze che ricordano che siamo tutti uguali, tutti affamati di amore e comprensione e in cerca di armonia.

Ma quanto spesso ci dimentichiamo (o non ci siamo mai resi conto) della semplicità con la quale ci si può toccare? Quanti problemi esistenziali o di appartenenza potrebbero essere risolti (o evitare che nascano addirittura) se solo ci fosse più contatto? La mia non è esaltazione da overdose di zuccheri, ma la costatazione di un fatto.  E’ vero che sono in un momento di apertura e quindi mi è un pochino più facile ricevere e dare, ma non sono un figlio dei fiori, un “freakettone”; non sono un folletto che parla con gli animali e fa ghirlande di margherite. Sono immerso nella materia del mio quotidiano, impreco e mi innervosisco nel traffico e faccio parte integrante del meccanismo (orribile) dell’economia sociale. Sono razionale, diffido degli imbonitori, dai buonisti, dai sorrisoni, di coloro che esaltano lo splendore del mondo perché so che vivere e viversi può essere a volte il più spaventoso dei film horror o il più noioso dei film d’autore francese. Ma è innegabile che se si entrasse più in contatto diretto con gli altri (ovviamente accompagnati da persone preparate e con gli strumenti per farlo) senza convenevoli e coperture, la vita sarebbe in generale più semplice, più intensa, più soddisfacente e più bella.

Capisco benissimo che fare il primo passo non è facile. Siamo così irrigiditi dalle strutture sociali, dai ruoli (figlio, moglie, impiegato, stronzo, algido, vittima, stupido, fallito) che il movimento naturale e non condizionato è difficile. Ma consiglio a tutti di provare a farlo questo passo, perché una volta dentro al cerchio ci si sente a casa e ci si sente vivi. Ci stiamo sempre più velocemente zombizzando, utilizzando solo la ragione (e anche poco direi). Ci stiamo perdendo la parte più viva e il motivo per il quale passeggiamo su questa terra tutti insieme. Depositarsi nell’altro, meglio se sconosciuto, ti restituisce qualcosa, non so ancora bene come spiegarlo. Ma ieri, sentendomi così presente e contento  in mezzo a gente che non conosco, mi ha fatto capire, anzi no, sentire, senza possibili dubbi o incertezze, che siamo figli della stessa madre,  che siamo fratelli.

Io per anni ho rimosso questo sentire, mi sono trincerato nel mio castello di razionalità e sfiducia nel prossimo. Ho visto con i miei occhi come un prato fiorito possa diventare deserto in poco tempo. E metto in conto che possa accadere di nuovo. Ma mentre dura questo stato di grazia (che poi potrebbe essere il quotidiano di ogni uomo sulla terra) me lo godo.

Questa precarietà nel mantenere un sentire che è fondante la natura umana, mi fa pensare che sia la società a volerci distanti, isolati, soli, perché così ci si controlla meglio. Ritengo che sia contro la natura dell’uomo essere separato dagli altri. La condivisione e la comunione sono caratteristiche, impulsi di specie. Eppure noi, con la nostra intelligenza e perfidia diabolica, siamo riusciti a renderci estranei alla nostra natura, interponendo tra noi e l’altro migliaia di schermi, di pulsanti, di obbiettivi , telecamere, display.  Abbiamo creato suddivisioni, catalogazioni, caste, classi sociali, colori migliori rispetto ad altri. Ci siamo inventati un sistema per rimarcare le differenze  e per sottolinearle con disprezzo invece che vederle come un’occasione per condividere e crescere.

Quanta gente c’è intorno noi pienamente soddisfatta, grata  e sazia di vita? Intorno a me, e me compreso, poca. Eppure ieri ero completamente appagato, centrato e direi benedetto da un semplice cerchio di persone che si sono prese per mano e hanno comunicato attraverso l’arte. Complicato? Costoso? Solo per pochi? No. Questo modo così semplice di interconnettere è diventato complesso nella misura in cui ci allontaniamo da noi stessi e dagli altri. Aumentando la distanza e ponendo sempre più filtri nelle relazioni risulta poi difficile se non disgustoso toccarsi.


Io sono il primo a cui non piace essere toccato troppo e soprattutto da chi non conosco. Ma perché? Mi sporcano? Mi danneggiano?  E’ la paura di essere feriti se esposti o l’educazione a non fidarsi mai di nessuno? Ci sono così tanti mostri in giro? Ma soprattutto è questa la prospettiva che vogliamo utilizzare per osservare il nostro mondo? Morte, distruzione, violenza, cupidigia, insensibilità e solitudine?

Siamo arrivati a mettere telecamere in qualsiasi ambiente perché l’uomo non si fida del suo vicino di casa, del suo simile. Si affidano i propri figli a gente che deve essere controllata da un’entità esterna. Ma dov’è il senso in tutto ciò? Se non mi fido di nessuno sarà meglio tenere i miei figli a casa mia. Meglio fare la spesa online, parlare solo attraverso i telefoni e mettersi un casco per la realtà virtuale per andare a fare una passeggiata. 

Finiremo veramente tutti sorridenti e falsi per farci mandare più like possibili? Sarà la popolarità nei social a determinare il nostro status sociale? (la serie Black Mirror docet). Non voglio giudicare, ciò che succederà avrà un suo perché nel significato evolutivo della razza umana, ma di fronte a queste prospettive (che mi sembrano senza senso) scelgo allora di stringere forte le mani di uno sconosciuto e sentirmi parte di un universo vivo e pulsante guardandolo negli occhi. Finchè non arriverà, inevitabilmente il Matrix.


  

venerdì 21 ottobre 2016

L'AFFERMAZIONE DI SE' E LE SUE CONSEGUENZE

E’ il primo Venerdi della prima settimana di un mio nuovo sentire. Ottobre mi ha regalato un’occasione ed io la sto cogliendo. Una settimana di viaggio, veleggiando verso una destinazione precisa senza fretta di raggiungerla. Aver trovato finalmente una direzione da percorrere, seppure in acque sconosciute, è molto stimolante. Se la si prende con la dovuta leggerezza e curiosità. Un moto in armonia con una parte di me che ho tenuto spesso sotto coperta. Adesso  mi sento quasi completo.  

E fisicamente distrutto.

Sono mentalmente come un prosecco appena aperto, bello fresco, frizzoso  e pronto a donare allegria. Per quanto riguarda il corpo è un altro paio di maniche. Le resistenze al cambiamento che tanto a lungo mi hanno tenuto imprigionato con spesse e pesanti catene, ora sono solo fili di lana facili da spezzare ma comunque presenti.

Mi ora viene in mente la frase di una serie che ho visto ieri: l’intera evoluzione della terra e dell’uomo si è basata su un singolo concetto. L’errore. E’ grazie ad esso che si tenta, si fallisce, si aggiusta il tiro e si ritenta di nuovo e si va avanti.

Il movimento interno ed esterno si evolve attraverso l’esperienza e  l’errore nelle sue molteplici forme. L’errore può condannare, distruggere, calpestare o può dare una nuova occasione, prospettiva, può generare bellezza e armonia. Dipende dai punti di vista.

E l’idea, il concetto di errore, la paura di stare sbagliando, accompagna ogni avventuriero.
Pervaso da queste forze magiche e misteriose, attraverso appunto il movimento e l’errore, mi sento completamente scarico in termini energetici. Ma arricchito in termini di relazione con gli altri e stima personale.  Martedi  ho fatto un incontro per pianificare il corso di scrittura creativa; incontro che il giorno dopo si è trasformato in uno scontro, poi in un confronto e poi in una dichiarazione di affetto e amore (meno male). Mercoledi sera ho provato con il gruppo senza un elemento che prima di essere musicista per me è un caro amico. Ho dovuto scindere  i due ruoli perché uno soddisfacente (molto) e l’altro no (non più per lo meno). Sia Martedi che Mercoledi ho dormito circa 4 ore a notte perché tornavo tardi e avevo troppi pensieri. Ieri mattina mi sono svegliato con un macigno sulla testa e un inizio di orzaiolo all’occhio sinistro che poi sembra sia solo uno scomodissimo brufolo. 

Ieri sera non avevo impegni e sono svenuto in un sonno poco ristoratore alle 21.30 svegliandomi 7543 volte. Stasera ho lezione di canto, poi altro incontro pianificazione e poi…. ARIMO.  Anche se so già che dovrò dedicare parte del week end (se non tutto)allo studio della musica perché devo iniziare a preparare l’esame di ammissione. Insomma prima settimana fervida e intensa, piena di spunti per riflettere. Rimane il fatto che sono contento; stanco e scarico ma contento.

Sto riflettendo molto sul concetto di ruolo: trovo sia veramente complesso gestire relazioni con persone per le quali si prova affetto e stima in due ambiti separati: quello dell’amicizia e quello lavorativo professionale. Sto imparando che non ci sono regole per gestire questo dualismo: tutto dipende dalle persone con cui si ha a che fare, tutto si basa sulla personale ed intima relazione con l’altro. Mi è capitato in questi giorni in due ambiti e con due persone diverse: in un caso ho capito, ho sentito, che l’amicizia e la professionalità debbano fondersi perché io possa godere appieno dell’esperienza; dall’altro ho bisogno di separare i due aspetti perché uno mi riempie qualitativamente e l’altro no. 
Per quanto il concetto stesso di ruolo possa suonare alle mie orecchie come catalogante e riduttivo in una persona, è un concetto utile. Un ruolo non definisce una persona nella sua totalità ma lo caratterizza in un aspetto peculiare del suo manifestarsi agli altri; è parte di un tutto. Questo mi capita molto sul lavoro dove io non investo con sentimento di solito; offro solo una relazione professionale e umanamente educata, ma superficiale. Manifesto un ruolo di impiegato perché è per quello che mi pagano e non voglio condividere altro. Ovvio è, che stiamo comunque parlando di relazioni tra esseri umani e che, come tali, non possono essere completamente algide, ma in linea di massima cerco di mantenermi il più possibile al margine ed operare solo attraverso il filtro di una professionalità educata. Non ho bisogno di raccontare chi sono, non mi interessa creare un contatto intimo anche se l’incontro (quello vero), quando capita, non lo evito perchè è sempre un regalo (anche quando il pacchetto fa cagare).
Su altri aspetti della mia vita però, con le persone che mi orbitano intorno perché le scelgo, con i miei affetti ed i miei amici, la situazione si complica nella misura in cui e fino a quando non si trova la giusta pozione alchemica per creare armonia nel progetto che si sta condividendo. Quella mediazione tra ruoli che permette una sana collaborazione. Ma se per qualche motivo la pozione magica perde il suo effetto, allora è sano manifestare il proprio cambio di stato. Questo può portare ad un cambio di direzione ed a un arricchimento o ad una separazione in quell'ambito. Quello che rimane difficile è gestire il sentimento che questa esternazione può creare. Dire a qualcuno che è parte del tuo quotidiano che non è più adeguato per me (non in maniera assoluta intendiamoci) in quel ruolo, senza trasportare questo sentire sul piano affettivo è impegnativo, stancante, crea confusione, dubbi e mi fa venire l’orzaiolo.
Probabilmente non sono stato chiaro perchè ancora sto metabolizzando. L'errore, accidenti a lui, è sempre dietro l'angolo. 
Questa settimana mi è capitato due volte di voler manifestare il mio sentire pur sapendo che avrebbe creato attrito! Una situazione pare si sia chiarita mentre l’altra si sta riempiendo di malintesi, mezze verità, intrighi. Arriva un momento dove la paura di creare dolore o delusione negli altri, crea mostri peggiori della verità. La mia verità. Il mio sentire. Può non piacere, non essere condiviso, fare male, fare arrabbiare ma è ciò che sento con il cuore; è genuino non è ragionato e non nasce con finalità malvage. E’ qui, dentro di me e sento il bisogno di condividerlo con la persona la quale ne da un volto ed una forma. Questo intenso processo di affermazione personale (io affermo chi sono facendoti sapere cosa sento) lo ritengo un atto di onestà  e di amore nei confronti di un amico perché richiede uno sforzo immenso (almeno per me) e volontà e ti mette in una situazione spesso scomoda.

Una grande lezione di vita, in così poco tempo. Fino a qualche settimana fa mi sarei tenuto tutto per me, avrei tratto comunque le mie conclusioni, ma non avrei condiviso per non creare attriti, per non mettermi nella posizione di avere il diritto a dissentire, perché io, non conto un cazzo. Fino ad oggi. Avrei coltivato in segreto la mia insoddisfazione e le mie frustrazioni e alla fine avrei abbandonato il progetto comune con qualche scusa, lasciando dentro di me una piccola carie che con il tempo sarebbe diventato un doloroso ascesso. Ma oggi mi sento in diritto di argomentare ciò che penso (solo nel caso che questa mia opinione porti a qualcosa e non sia fine a se stessa ovvio), anche se fa male a qualcuno . Ho da troppo tempo una bassissima autostima (vediamo se ci lavoriamo un po’ su grazie) che non mi ha mai permesso di dare un opinione su qualcun altro. Intendiamoci, di opinioni sugli altri ce ne facciamo mille al giorno, ma mai mi permettevo di illustrare a qualcuno il mio sentire quando ero in disaccordo per qualcosa per me importante. Dentro me la voce della mia insicurezza sussurrava “ E tu? Tu sei migliore? Al posto suo cosa faresti? Con che diritto critichi qualcuno se tu non sei nessuno?” . Invece io sono qualcuno. Sono Ivano. Ho delle idee, delle convinzioni che possono essere messe in discussione; sono sempre pronto al confronto e al dialogo. Ma non permetto più di togliere dignità al mio sentire, perché se non costruito o filtrato dalla ragione con lo scopo di manipolare o guidare, allora è vero e sano. E mio. Chi lo vuole interpretare come qualcos'altro lo faccia pure.

Pur mantenendo come precetto base la massima di Socrate IO SO DI NON SAPERE, ossia l’ammissione della propria ignoranza come base per la conoscenza, rimane il fatto che ho diritto ad un’opinione, soprattutto se essa crea in me un vissuto con un amico. In questi giorni straordinari mi sono sentito in diritto di condividere senza imporre nulla, senza chiedere nulla in cambio o di diverso. Solo manifestandolo e rendendo partecipe l’altro. Lascio anche la libertà di gestirlo come meglio creda, compreso il rischio di perdere quell’amicizia perché vissuto come un affronto personale, come un’offesa, una mancanza di rispetto o un mettermi su un piedistallo e giudicare.
Noto ora che nelle relazioni, se si aspetta troppo a palesare un malessere, un dubbio, un’incomprensione o ad esternare la fine di un’epoca, di un vissuto, diventa veramente difficile non fare di tutta la complessità del legame un unico sterile fascio.

Io mi sento l’ultimo ignorante sulla terra e parto sempre dal presupposto che chiunque possa insegnarmi qualcosa. Apprendere e conoscere sono i propulsori del mio interesse verso una persona. Aggiungo anche la bontà, talento (troppo sottovalutato) che mi ha fatto innamorare del mio compagno. Probabilmente perchè non so un cazzo e sono cattivo!!!!

Mi metto sempre in discussione e cerco (magari non riuscendoci ogni volta) di mettermi nei panni degli altri. Accetto le critiche, con stizza e apprensione all'inizio forse, ma sempre prendendole in considerazione prima di decidere se veramente mi possano aiutare a migliorare, se effettivamente evidenzino una mia zona erronea prima di rifiutarle. Oltretutto credo che se una critica crei un riverbero tale da scuotere le fondamenta della proprio sicurezza, allora sia un regalo del cielo. Perché le case costruite su fondamenta instabili, crollano facilmente creando danni enormi quando meno te lo aspetti!

Ed è curioso che proprio in questi giorni, dove sento il profumo del nuovo e la tentazione del mistero sia incappato in queste difficoltà relazionali. Forse il rispetto dell’altro implica la sincerità nel sentimento. Questo mio voler proteggere e preservare crea ancora zone paludose e non fiumi cristallini.
D’altro canto amare qualcuno, significa anche lasciarlo andare non costringerlo a rimanere per forza con omissioni.
E allora dico a questi amici verso i quali ho manifestato un sentire non piacevole che io sono qui comunque pronto a condividere qualcosa di nuovo e/o qualcos’altro, ma se ritenete che la mia verità crei una frattura nella nostra relazione allora avete la mia benedizione per andare lontano. Il mio affetto non cambia. Anzi è più reale.

Tante emozioni forti che ho suscitato ed ho vissuto in questi pochi giorni. Momenti di profonda riflessione e di confronto che mi fanno sentire più uomo, più maturo e per questo non posso che apprezzare la mia età e la mia esperienza. Per molti, l’avanzare del tempo è una condanna, per me è un dono prezioso; è passare dallo spirito alla materia per poi riappropriarsi piano piano, dello spirito incarnato come singolo, unico per poi sentire di essere un tutto di nuovo.
Mi piace questo Ivano che prende coraggio e si muove nel suo mondo; mi da gioia e fiducia perché tutto quello che capita, TUTTO e SEMPRE è parte di un disegno che vuole esclusivamente  rappresentare la propria realizzazione e consapevolezza.



mercoledì 19 ottobre 2016

LA CINETICA E LA RICERCA DI ESMERALDA

Ho quasi paura a scriverlo, a dichiarare per iscritto che scelgo di tentare, come posso, quanto posso, di seguire la strada tortuosa e ovviamente in salita, della realizzazione personale (quella vera).Scelgo di prendere il viaggio dopo una bella e corposa sosta.

Questa volta il passaggio dall’immobilità al movimento è armonioso, spontaneo elegante. Spesso mi è capitato di sentire il DOVERE di mettermi in moto e allora mi prendevo con violenza e mi sbattevo fuori di casa da solo tipo il gatto Tom quando veniva sorpreso dal cane Spike.   

Ora mi sento come se mi fossi finalmente alzato dalla panchina e avessi preso un treno. Prima un po’ agitato camminando avanti indietro e poi sempre più rilassato in attesa di arrivare alla prima fermata. Si, perché è di piccole fermate che voglio si componga questa nuova avventura. Lascio da parte le inutili paure per il futuro, per gli obiettivi da raggiungere e mi butto nel presente, cercando di viverlo appieno. Poco, piano e bene. E bello.

Non che mi sia trasformato da Gargamella a puffo felicissimo ovvio. Sono già stanco prima di iniziare! Non vedo fiori e arcobaleni dove prima c’erano grotte buie e paludi. Intravedo però la possibilità e sento scorrere la volontà. E dici poco. E? fiorito dentro me un sorriso di gioia e curiosità per vedere cosa succede. Non sono più fermo ad aspettare, mi sto muovendo e che sia per un giorno o per il resto della mia vita davvero non mi importa. Adesso ci sono.

Sento sotto i piedi le vibrazioni della locomotiva sulle rotaie, vedo gli altri viaggiatori indaffarati a sistemare le valige o persi nella contemplazione del paesaggio. C’è fervore, c’è attesa, c’è energia. Ed io ne faccio parte.  Ieri mi sono ritrovato a parlare con una cara amica, di me, di noi, ma soprattutto di me. E attraverso le sue analisi e le sue intuizioni mi sono riappropriato di quell’essere insoddisfatto che ha bisogno di continue novità per sentirsi vivo. Ci sono persone, che attraverso la contemplazione e lo stare, riescono ad essere appagate e a vivere pienamente. Non che siano fermi come un sasso (anche perché gli uomini-pietra di solito non sono sereni) ma felici ed in equilibrio con il loro essere, completamente immerso nel presente e in armonia con l’ambiente che li circonda. Io invece sono un insofferente, ho bisogno di movimento, di rumore, di stimoli, altrimenti mi trasformo in un adesivo della  Panini attacca e stacca: attacca in macchina, stacca al lavoro e riattacca sul divano. E mi dimentico in fretta di essere un uomo.  

Oggi mi sento come se fossi su un trampolino pronto per tuffarmi: passata l’indecisione se farlo o no, dopo aver impiegato anni per salire gli scalini che portano in alto, finalmente sono pronto; ancora qualche passo e mi butto. Probabilmente non farò un triplo carpiato con avvitamento, non entrerò in acqua leggero come una piuma, ma mi butto. E’ anche possibile che mi spiaccichi con una dolorosa spanciata ed esca subito dalla piscina, ma chi cazzo se ne frega. Per me, l’importante adesso è tuffarmi.

Nel momento in cui ho deciso di mettermi alla prova, di vivere, di giocare con le occasioni che ancora una volta (grazie al cosmo) mi si propongono, è come se avessi perso 20kg con una cura dimagrante miracolosa. Rimangono le incertezze, i dubbi ma non c’è più l’angoscia, il rimorso, quel bolo fangoso in fondo allo stomaco che ricordava tutti i giorni quello che avrei potuto e non ho fatto. Ora ci provo signorie se non ci riesco comunque avrò fatto un viaggio, conosciuto luoghi e gente nuovi e solo per questo ne sarà valsa la pena. Si può sempre tornare, quello che non è sempre garantito è la possibilità di andare da qualche parte.

Dopo tutto questo positivismo che mi fa prudere la pelle, non posso che ammettere che ogni viaggio comporta e rischi e momenti di difficoltà. Non c’è sentiero che non abbia una radice che ti faccia inciampare.

Io ne ho già incontrata una.

Ieri, nell’organizzare un progetto, carico di buoni propositi e di idee, mi sono ritrovato inebetito ed interdetto: mentre il mio interlocutore parlava io pensavo “cosa mai mi è passato per la testa di accettare sta roba! Non ne so niente, non so fare niente, ma dove vado!” . Ma stavolta, il subdolo sconforto e la viscida rabbia non hanno fatto in tempo a raggiungermi perché la voce della mia volontà si è fatta sentire chiara e cristallina: “ Non sai, vuol dire che imparerai. Non vedi un sentiero ben delineato e allora brancola nel buio per Dio! Allunga le mani e cammina! Al massimo di fai qualche bernoccolo” Ed  è proprio quello che voglio fare. Fanculo alla paura del buio! Fanculo alla mia esigenza di controllo e di pianificazione, fanculo al conosciuto e a quello che so gestire.

Ritorna la maledettissima aspettativa, quella benda sugli occhi che non permette di  vedere quello che c’è, ma solo di immaginare quello non c’è e che sarebbe potuto essere.  Per quanto io cerchi razionalmente di annullarla sbuca fuori lo stesso come la bolletta di Genniao del metano.  Sempre mi immagino un’evoluzione di una situazione o di un percorso; nel momento in cui l’immagine mentale è disattesa nella realtà, entro crisi o mi rompo le palle, spacco qualcosa e me ne vado. E ringhio.

E’ giusto e sano, credo, investire sui progetti e sulle persone ma forse è più una questione di sentimento che di proiezione mentale. Non riesco a spiegarmelo bene, però  con la musica ad esempio, se cantassi per diventare famoso (proiezione) avrei già mollato da tempo . Investo il canto di passione e amore ed il tempo e le energie che dedico a questa attività sono già ripagate dal mio sentire mentre lo faccio.

Noto un certo "continuum"  in questi ultimi post, mi sto ripetendo un po’, ma veramente vorrei rileggerli fra qualche mese ricordando il momento nel quale finalmente ho limato le corna e visto spuntare timide "alucce" piumate tra le scapole. Per uscire dagli inferi e tendere verso il paradiso.

Mi sento pronto per godere di tutti quei piccoli momenti, quelle piccole scelte, che fanno parte di ampi e più complessi progetti. Tante “notine” suonate una dopo l’altra che creano una splendida armonia. Non voglio più correre solo per raggiungere il prima possibile un traguardo , voglio passeggiare in un sentiero guardando i colori cambiare, sentendo i profumi del bosco e la terra umida sotto i miei piedi.

Forse il mio non poter più correre fisicamente, per il mio problema alla gamba, voleva significare anche questo. Quando mi sono operato ho riflettuto e mi sono detto: ok, non posso più correre. Cammino. Che problema c’è. Ma da un punto di vista karmico o cosmico o come vogliate chiamarlo che significato ha? Mi sono comprato un libro di metamedicina (i sintomi del corpo sono segnali e messaggi che rimandano ad altre sfere dell’essere) e i problemi alle gambe sono segnali fisici di un nostro disequilibrio nel porci al  mondo (spiegazione mooooolto semplificata). Con le gambe decidiamo una direzione, ci muoviamo verso o ci allontaniamo da, insomma ci spostiamo esercitando la nostra volontà sul movimento. 

Io probabilmente mi spostavo così velocemente tra i diversi ambiti della mia vita che l’universo mi ha voluto dire “aspetta bello (non so perché ma l’universo me lo immagino un po’ hippy e un po’ fattone) calma, correre troppo velocemente  è come non muoversi”. Interessante.

 E infatti io nella vita o corro o sto fermo. Oggi mi sembra di cogliere questa occasione, una possiblità a pagamento (una settimana tra macellai e moribondi) per poter muovermi trovando un ritmo. Non più a rotta di collo.

Intorno a me ci sono volti, proposte, possibilità; dentro di me ci sono idee, volontà e voglia di fare. Non ho bisogno di scegliere tutto o rifiutare tutto come faccio di solito. Ho voglia di assaggiare, provare, decidere ciò che mi aggrada o gentilmente declinare verso qualcos’altro. Con impegno ma con leggerezza, deciso ma delicato.

E passo dopo passo, con qualche saltello e una giravolta, trovare il mio cammino di mattoncini dorati verso Esmeralda, la magica città del regno di Oz. 

lunedì 17 ottobre 2016

IL POST PIU' LUNGO DI SEMPRE: LE CATTIVE ABITUDINI

Tra le tante cattive abitudini che abitano il mio essere, c’è quella di non credere in me stesso. Non sono un grande credente in generale. Io dubito e ciò è sano, ma sono anche abilissimo a sottovalutarmi, ad avere una visione di me lontanissima da quella che hanno le persone con cui ho a che fare. Sempre peggiore. E non importa quanto autorevole, giustificata e credibile possa essere la loro percezione, io mi sento sempre inferiore alla media. Intendiamoci, non è che mi considero una completa merda (non più per lo meno) ma ho serie difficoltà, quando mi guardo allo specchio, ad apprezzare ciò che vedo sia fuori che dentro. Sono giorni nei quali rifletto sulle mie abitudini, la maggior parte delle quali studiate a tavolino, costruite e perfezionate nel tempo per alienare e distorcere ancora di più la percezione di me stesso. 
Questa visione mi ha portato a fare delle scelte, che, sempre in questi giorni, stanno scavando un pozzo nero pieno di rimorso e sconforto. Quando pensavo finalmente di aver raggiunto un equilibrio, una stabilità emotiva pattinando su un lago ghiacciato di serenità, il ghiaccio si spacca ed io cado nelle gelide acque dell’indecisione e del tormento.

Ho sempre percepito in me una vena artistica. Prima fra tutte il canto ma anche la recitazione e la scrittura. A spingere queste passioni ci sono state delle muse, dei maestri, delle guide tanto sagge da non forzare mai la mano per far si che qualsiasi decisione fosse esclusivamente una mia  libera scelta. Ed io ho sempre scelto di non seguire i loro consigli. Ovvio.

Le prime persone che hanno intravisto il mio talento per la scrittura sono state la maestra Ivanna delle scuole elementari e la prof. di italiano del liceo, Chiara (un’anima speciale) . Entrambe, scrivendo dei racconti, mi avevano spinto a coltivare questo talento in quanto potente e inusuale in un bambino e ragazzo della mia età. Ma ai tempi non ci feci caso, loro non insistettero e io mi persi via in altro. 

Oltretutto sono cresciuto con la granitica convinzione che l’arte è un passatempo, non riempie la pancia e soprattutto non nobilita quanto lo studio (vero) ed il lavoro. Come potevo mai pensare di poter diventare uno scrittore, un attore o un cantante? Ma per favore! Lo sai quanta gente ci prova, fallisce ed è  comunque più brava di te?  A 21 anni ho iniziato a lavorare, e per me ha sempre caratterizzato una libertà  fondamentale. Ho cambiato un sacco di aziende perché non mi accontento e non sopporto le teste di cazzo ma MAI sono rimasto senza lavoro o comunque senza un ingresso di denaro. Certo parenti e amici mi hanno aiutato e continuano a farlo (w loro) ma ho sempre cercato di non dipendere da nessuno. Che i figli non ripetano gli errori dei genitori. Per lo meno qualcuno di essi.

Ogni volta, nel corso della mia vita, mi avvicinassi ad una delle mie attività artistiche affini, dopo un percorso di studio, mi si chiedeva di scegliere. Ho frequentato un corso di teatro amatoriale. Era la fine del terzo anno di una dell’esperienze più belle e significanti della mia vita: lo consiglio a tutti, anche a chi non crede di avere capacità interpretative. In quell ambiente magico si sviluppa un’intimità ed una complicità che credo sia impossibile rivivere nella quotidianità. Stavamo decidendo con Martin, l’insegnante, di creare un gruppo indipendente che ogni anno avrebbe proposto degli spettacoli alla comunità di Varese. Parlando di progetti mi disse chiaramente e senza giri di parole con il suo peculiare accento argentino: “Secondo me hai la stoffa dell’attore, però per farlo devi sbrigarti e iscriverti ad un’accademia. A Milano ce sono alcune serie, ti posso aiutare per l’ammissione. Tieni conto che dovrai frequentare tutti i giorni tutto il giorno. Dovrai dedicarti completamente alla recitazione, la tua vita dovrà girare intorno e dentro al teatro.” In quel momento fui molto lusingato, ci pensai su ma non potevo mollare un lavoro “vero” per fare l’attore. Ma ti pare? Io? 

Però qualcosa scattò in me e decisi di avvicinarmi all'idea di vivere a contatto con il mondo che tanto mi aveva affascinato. Lasciai il mio lavoro “SERIO” (o forse era un periodo che gironzolavo tra librerie e block buster non ricordo) e incominciai a lavorare per la compagnia teatrale che aveva organizzato il corso. Un periodo felice: giovane ed entusiasta, facevo un lavoro a contatto con l’arte, cantavo in un gruppo e stavo iniziando a prendere lezioni di canto. Poi arrivò una chiamata dal mio vecchio lavoro; qui il cosmo mi mise alla prova. Stavano cercando disperatamente gente qualificata da inserire il prima possibile, si ricordavano di me e mi volevano di nuovo in ufficio.Subito. Era il 2003 o 2004 credo. Io rimasi piacevolmente sconvolto dalla proposta: una multinazionale mi stava richiamando dopo che io mi ero licenziato! Wow! Mi sentivo super orgoglioso e, a 23 anni, quello che più mi importava era avere soldi ed un lavoro che me li garantisse per un  lungo periodo.

 E così lasciai perdere l’idea  dell’accademia di arte drammatica, mi tagliai i “dreadlock” appena fatti con 8 ore di torture, e lasciai la mia vita da artistoide senza certezze per tornare al “corporate”. Nel momento in cui avevo incominciato a barcamenarmi assaggiando quell’arte dell’arrangiarsi tipica degli artisti che stanno cercando la loro strada, il diavolo americano mi aveva sussurrato all’orecchio e la sua voce suadente mi aveva subito reso schiavo. Di nuovo.

Cosa simile successe studiando canto jazz. Dopo qualche anno, la mia insegnante di cui ho spesso parlato in queste pagine, mi propose, mi consigliò caldamente poi, mi minacciò alla fine di entrare in conservatorio. “Hai talento” mi disse “hai le capacità, hai la possibilità di vivere di musica”. Aspetta, stai parlando con me? Scusa? No grazie. In realtà pensavo che il suo autorevole e rispettabilissimo giudizio sulle mie capacità canore fosse più dettato da un affetto maturato negli anni e da un suo gusto personale che dalle mie oggettive capacità tecniche ed interpretative. Non riuscivo e non riesco tutt’ora a credere che io sia un bravo cantante, di essere sopra la media tra i milioni di talenti in attesa di un riconoscimento. E qui la domanda: ma se mi sento un artista mediocre e “banalotto” perché continuo a cantare?

La risposta me la sono data con l’ultimo concertino. Cantare mi fa star bene e mi da un assaggio di quella realtà, di quella percezione che è oltre il mero materialismo consumistico. E’, come ho già scritto in un altro post, il mio veicolo verso lo spirituale. Cantare è la mia preghiera alle divinità. Ed ero in pace con fatto di avere il mio momento di spiritualità pur essendo solo un hobby, un’attività collaterale. Uno non deve necessariamente rendere la propria passione un mestiere, l’importante è viverla. Almeno questo credevo fino a Venerdì scorso.

Adesso un nuovo dubbio mi strazia: ma se uno ha talento, non ha il dovere di onorarlo in tutti i modi possibili? E’ come avere un ottimo Brunello di Montalcino e usarlo solo per cucinare il brasato. Ma io sono un Brunello di Montalcino? O solo uno dei tanti Tavernello sullo scaffale di un super mercato?

La crisi è iniziata Venerdì, appunto, durante la lezione di canto. Ho preparato un brano abbastanza complesso e, mentre lo eseguivo, vidi la mia insegnante fare dei sorrisini e abbassare lo sguardo come a voler nascondere la vergogna. Mentre cantavo pensai “cazzo, dalla sua faccia starò cantando proprio di merda!!! Chissà che scempio, ma sai che c’è ? sono qui per imparare e per cui andiamo avanti e pigliamoci tutte le critiche!”. Non mi sarei mai, mai, e ribadisco mai, aspettato la reazione entusiasta che ebbe quando terminai di cantare. Mi ha elogiato e ancora una volta, una persona che stimo tantissimo e la cui professionalità e competenza sono un esempio da seguire, mi ha detto che ho talento, che so cantare, che trasmetto qualcosa che va oltre una performance tecnicamente valida. 

Secondo lei merito di vivere facendo il cantante. So bene, memore dalle lezioni passate, che per lei ho una bella voce e che canto bene, però sentire il modo in cui mi ha mandato a cagare (bonariamente) per non aver fatto di questa capacità la mia priorità nella vita, mi ha dato un pugno allo stomaco ed un calcio nei coglioni. Come se non bastasse ha continuato dicendo che forse, forse, pur essendo un 36enne (quindi vecchio per entrare in qualsiasi conservatorio), un possibile collegio di ammissione potrebbe non tener conto della mia età a favore delle mie capacità. E non una scuola qualunque, ma la Siena Jazz University. In quel momento, Venerdi sera, dopo una giornata non idilliaca, durante la quale avevo già programmato un fine settimana all’insegna del relax e delle grandi pulizie di casa, il mio castello di carte è crollato miseramente. Sono andato da un’amica perché dovevo raccontare a qualcuno la sconvolgente proposta, sono arrivato a casa e mi veniva da piangere, e il mio ragazzo non poteva capire. 

Ciò che mi ha distrutto è il ricordo delle occasioni perse, la possibilità di sconvolgere la mia vita, rigirarla come una calza appena uscita dalla lavatrice e finalmente, finalmente dichiarare al mondo ma soprattutto a me stesso che io, Ivano ci credo e ce la posso fare.

Ho passato due giorni orribili, utili forse, ma orribili. Senza le mie costruzioni mentali, tanto fragili quanto confortanti, orfano del mio maniero costruito su false fondamenta. Torri senza finestre e senza specchi. Niente più saloni con altoparlanti giganti che ripetono ipnotici lo stesso messaggio: “stai qui, ma dove vuoi andare? Hai la tua casetta, il tuo divano, vieni, siediti. Il tuo dovere lo hai fatto, riposati, qui nel tuo castello. Non muoverti. Rimani”. La proposta dell’insegnante ha spazzato via tutto e mi sono trovato solo nudo e… senza scuse dietro alle quali nascondermi. Grazie anche alla mia stabile relazione amorosa ero quasi riuscito ad incasellare, pigiare, costringere, rinchiudere il mio essere dentro la scatolina che la società mette a disposizione per tutti noi. Lavoro, casa, televisione, pizza, lavoro, casa televisione, palestra, cinema, lavoro.

Ma adesso incomincio a tirare qualche somma, a scoprire qualche filo che sembrava buttato a casaccio sul cammino ma che se preso in mano e seguito, riconduce e da una chiave di lettura nuova ad alcuni momenti di questo travagliato 2016. Primi fra tutti la mia situazione economica: ho tanto cercato una stabilità che non ho mai raggiunto pur avendo sempre scelto il LAVORO VERO. Una valanga di conti da saldare con il passato, sgradite sorprese, insomma il 2016 è stato ed è all’insegna degli imprevisti economici.

Riavvolgendo il “gomitolo” ho capito che questo lavoro VERO tanto perseguito e ottenuto non è garanzia di un cazzo se non di una continuità sterile. Quello che cerchiamo nella vita è passione, soddisfazione, impegno e gratificazione; traguardi che io non ho mai raggiunto con il lavoro VERO. Si, mi sono raccontato qualche frottola e ci ho anche creduto, ma il sentirmi vivo e pieno, proviene da altre esperienze. Non mi eccito timbrando il cartellino e non mi sento pieno di vita compilando form in Excel (cugi). MI ha colpito molto una frase che ha detto Gino, il marito di mia zia (non so perché ma non lo chiamo zio). Ha i suoi 70 e passa anni, è una persona tranquilla, gentile e riservata. 
Mangiando una pizza mi ha detto: “curiosa la vita; quando siamo nel pieno delle nostre forze dobbiamo fare un lavoro che per lo più non ci piace e quando siamo vecchi e stanchi abbiamo tutto il tempo di realizzare i nostri sogni. Non sarebbe meglio al contrario? “. 

Non è forse ora, adesso, subito, che vale la pena lottare e investire per ciò in cui crediamo invece di dedicare quasi tutto il nostro tempo e le nostre forze per far arricchire qualcun altro solo per andare al supermecato e pagare l’affitto? E la vita non mi ha forse dimostrato che quando c’è da rimboccarsi le maniche per perseguire un sogno o realizzare un progetto nel quale ci si mette l’anima il cosmo ti viene incontro? Sempre?

La stabilità, l’equilibrio nella vita, non è data dallo stipendio, ma dalla propria soddisfazione attraverso l’affermazione di sè stessi. Anche solo scrivere queste parole mi fa venire un tic nervoso all’occhio destro. Però ci credo. Ma è fuor di dubbio, che pur avendo entrambi un lavoro a tempo indeterminato, siamo sempre senza soldi, abbiamo sempre debiti da pagare a ciclo continuo (concluso un debito ne inizia subito un altro neanche esistesse una catena di montaggio per debiti di Arca Ivano) e spesso siamo in bancarotta. Che questa scimmia per il posto fisso, il LAVORO VERO sia una scusa per paura di mettermi davvero in gioco? Forse è per questo che non ho particolari problemi a licenziarmi da un posto di lavoro, non vivo lo stress da impiegato come tanti colleghi, perché per me non ha un valore significante; il lavoro non determina chi sono e come sono. Lo faccio perché devo. 

Il lavoro è necessario per mantenersi ma soprattutto per essere indipendenti dal punto di vista economico (nella mia famiglia ho un pessimo esempio di dipendenza economica che non mi permette di dipendere a mia volta), ma non da e non aggiunge significato alla mia vita. Eppure è il luogo dove passo più tempo. E vale la pena spendere la maggior parte della mia vita in un ambiente che non mi da nulla ? Che non mi arricchisce, che non mi mette alla prova, che non mi da l’occasione di crescere e migliorare? Ovviamente no.

Ci sono delle forze, in questo periodo, sento come un movimento cosmico di pianeti e costellazioni intorno a me. Sento quel famoso WIND OF CHANGE (vento di cambiamento) cantato dagli Scorpions che mi spingono a investire sul mio lato artistico per vivere di esso, sempre immmerso in ciò che mi da soddisfazione, mi fa sentire vivo e mi smuove fin nelle viscere. Ma che cazzo di folle paura! E poi adesso che avevo già ordinato la poltrona che ti alza in piedi da solo con super pantofola??? Dai!!!!!

D’altro canto io al momento non vivo male, il problema è che non vivo appieno. Il lavoro che ho adesso è piacevole, era da anni che non trovavo un ambiente abbastanza rilassato,  senza nessuno che mi spacchi le palle. Comunque faccio musica, tra poco inizierò un corso sulla scrittura creativa come “co-condutttore” (il co-co mi fa riderissimo). Insomma, in qualche modo mi sto muovendo verso l’arte, con dei compromessi dettati dalle mie rigidità, da quegli insegnamenti che sono marchiati a fuoco sulla mia pelle, che sono stati iniettati nella mia spina dorsale da piccolo. Però c’è un sentire che non mi molla e che mi spinge, mi da degli scappellotti, mi gira intorno facendomi lo sgambetto e mi sputa in faccia ringhiante “NON BASTA, NON BASTA, DI PIU’, DI PIU! NON BAGNARTI I PIEDI, TUFFATIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII!’”. 

Anche perché altrimenti non riuscirei a spiegarmi il profondo disagio, il dolore,  che ho provato Venerdi quando la mia insegnante mi ha proposto il calvario della preparazione all’esame di ammissione alla Siena jazz University. Per farlo dovrei studiare, oltre al canto ovviamente, armonia (non so neanche bene cosa sia; partiamo bene). Ho guardato sul sito e la prova consiste in una serie di esercizi che adesso non sono assolutamente in grado di affrontare eppure hanno chiamato il mio interesse, hanno catturato la mia attenzione e curiosità con la voglia dell’archeologo di decifrare qualche rara iscrizione trovata sotto tonnellate di sabbia. Ma il problema è che debba investire gran parte del mio tempo libero per prepararmi decentemente e non so se voglio farlo.

 Da una parte mi sento un po’ ridicolo rimettermi a studiare (anche se sarebbe studiare qualcosa che mi appassiona forse per la prima volta in vita mia) a 36 anni. E poi c’è il grande dubbio: e se mi prendono? Che cazzo faccio? Dovrei frequentare un’università a Siena per almeno 3 anni, con obbligo di frequentazione di 2 giorni alla settimana (non i week end). E, ciliegina sulla torta, 2000 euro l’anno.

Allora penso: potrei prepararmi per l'esame, vedere se lo supero e lì, solo in quel momento, decidere il da farsi. Inutile fare un groviglio di 10 problemi quando se ne può analizzare uno per volta. Ma questo implicherebbe comunque togliere del tempo al mio ragazzo e ai miei amici (dopo aver passato la maggior parte della giornata chiuso in un ufficio) e far sbattere la mia insegnante forse inutilmente. 

Mi rendo conto, che un’altra cattiva abitudine che mi appartiene è la mancanza di dedizione, di costanza, di pazienza. Quello spirito di sacrificio necessario al successo personale, quella preparazione tecnica che poi ti permette di fare una maratona. Sullo studio io sta roba non ce l’ho. Posso allenarmi in palestra tutti i giorni con una costanza militare, posso leggere un romanzo in tempi record, riesco a studiare guide per giochi della playstation che varrebbero una laurea ad honorem, mi applico sul lavoro come se da esso dipendesse la salvezza del pianeta, ma non chiedermi di studiare per me stesso. Anche questa cattiva abitudine è da ricondursi, credo, ad una certa disistima personale. 
Forse non mi permetto di avere successo in quegli ambiti che davvero mi interessano per confermare il mio essere banale, uguale a tanti altri o addirittura inferiore. Forse il mio confermare di non essere speciale, contraddice quanto creduto da mia madre, che, quando ero piccolo (senza voler condannare nessuno ovviamente) ha creato su di me delle aspettative impossibili da sopportare. Il mio mollare è stata la mia via di fuga per sentirmi di nuovo leggero. Il mio deludere gli altri è stato il mio salvacondotto. Non rompetemi il cazzo perché sono una merda ok?

Ma ora il gioco non funziona più perché so di avere talento (davvero?), so di potercela fare (da quando scusa?), so di poter avere successo (personale intendo non commerciale) se davvero mi sforzo per ottenerlo. La vita mi insegna ogni giorno che le scorciatoie non esistono, che non ci sono accessi preferenziali, almeno non per me ma credo anche per nessuno. Probabilmente una lezione karmica che devo imparare in questa vita è che bisogna dare il massimo per ottenere soddisfazione. Non esistono i compromessi. O tuto o niente. 
Il sacrificio temporaneo è direttamente proporzionale al grado di realizzazione. Semina e cura le tue piante oggi per raccogliere dei frutti domani. Se le compri già adulte e le piazzi nel giardino, per lo meno abbi la consapevolezza di prenderti per il culo e di aver saltato una parte fondamentale del processo di crescita e maturazione.

Le cattive abitudini vanno riconosciute ed abbracciate prima; poi vanno prese a calci in culo fino a trasformarle in occasioni per realizzare sè stessi. 
Scriverlo è stato semplice. 


giovedì 13 ottobre 2016

PISELLI E MATERASSI

Sono un po’ incazzato, un po’ nervoso (questo sempre), un po’ triste, un po’ avvilito, un po’ emozionato, un po’ spaventato. Dentro e fuori di me stanno accadendo tante cose per le quali mi è difficile rimanere sereno.

Nuove proposte, occasioni, cambiamenti, novità; opportunità per uscire di casa e sfidare i venti delle mie possibilità e i misteri delle mie capacità. Ma ciò che più attira la mia attenzione e accresce la mia vorace ansia, è la paura della perdita. Sono immobilizzato dall’enorme e soverchiante terrore di pagare pegno: perdere ciò che ho in cambio di qualcos’altro che non conosco ancora, perché ciò che ho mi dice chi sono. Adesso però, quando mi guardo allo specchio, vedo solo un’immagine rarefatta, una bozza dell’Ivano che spinge dentro me per uscire fuori.  

Ho la sindrome da abbandono, quella sensazione di sentirsi alla deriva senza quei punti cardinali che danno una direzione conosciuta anche se non ci si sta muovendo. Ho paura di perdermi, di brancolare nel buio, di trasformarmi in un vecchio solo e meschino se lascio andare ora ciò che ho. Ho paura di inaridire il mio già piccolo e striminzito giardino di sentimento ed affetto, di trasformare in deserto, quel praticello fiorito che, con tanta difficoltà, riesco a mantenere vivo. Ho una maledetta paura di togliere senza aggiungere nulla. Paura di perdere senza guadagnare.

Delle volte mi sento prontissimo al cambiamento, per poi sprofondare in una depressione straziante perché farei qualsiasi cosa per rimanere saldamente afferrato a ciò che ho e nel luogo in cui mi trovo. Certo che essere sia cozza attaccata ad uno scoglio sia leggero polline che vola portato dal vento, non aiuta molto.

Credo che siamo parte di un immenso fiume e che l’acqua continui a scorrere sempre. Certo ci sono periodi di secca,  altri in cui la corrente è docile e avvolgente e quasi non ci si accorge del movimento, ed altri ancora in cui il fiume è in piena, piove e siamo in mezzo alle rapide. E pur abbracciando forte a qualche roccia perché non voglio spostarmi, prima o poi sarò trascinato via. Ed è sempre meglio scegliere che subire una scelta cosmica. Facile aspettare che sia la corrente a decidere la direzione e la destinazione.Anche se ogni tanto lasciarsi andare è piacevole e positivo. Ma l’esperienza mi insegna che spesso bisogna nuotare scegliendo noi dove andare, a volte anche controcorrente.

Ma che dolore, che tristezza, che bruciore di stomaco, abbandonare quel paesaggio tanto caro e conosciuto per avventurarsi chissà dove.

Sarebbe fantastico avere sempre le idee chiare; certezze come pesanti ancore che ci tengano esattamente dove vogliamo stare nonostante la corrente. Per un bel periodo ho vissuto così, ancorato e sereno. Tutte le altre barche che vedevo passare intorno a me, che mi superavano, erano solo piccoli scafi alla deriva, mentre io avevo trovato il mio porto, la mia isola del tesoro. Ma adesso l’isola mi sembra solo una manciata di sabbia sul mare, e mi sono rotto le palle di camminare per il suo perimetro senza sosta perché ne conosco ogni millimetro quadrato. Ed il tesoro ora mi sembra solo un banale oggetto decorativo.

Più che volerlo, (perché rimpiango tanto la mia placida soddisfazione e di fatto io il cambiamento non lo voglio cazzo) sento proprio l’esigenza di ripartire, con dolore ma con urgenza, con terrore ma con adrenalina. E come tutte le partenze saranno piene di lacrime e abbracci; rimarrà quel vuoto, quella solitudine tipica di tutti i viaggiatori. Perché per quanto si dica il contrario, io credo fortemente che ogni viaggio sia un viaggio intimo, personale e solitario. Si viaggia sempre da soli gente, nonostante le persone che ci possano accompagnare. Ognuno nella sua esplorazione è solo. Questo l’ho scoperto anni fa quando intrapresi il cammino di Santiago. Ho percorso 300 km in due settimane, a piedi, ed ho conosciuto un sacco di persone fantastiche. Ma la condivisione era la mattina prima di partire, durante la sosta per mangiare e la sera quando si arrivava alla tappa successiva. Il viaggio vero e proprio era solo mio, in compagnia del mio passo, del mio ritmo, del mio respiro e dei miei pensieri. 

Un processo di osmosi con l’universo, intimo e incondivisibile.  

Non sono pronto al cambiamento, alla rivoluzione, non sono deciso, non ho le idee chiare. Solo al pensiero mi si bagnano gli occhi e ripercorro nostalgico gli anni che mi hanno portato fino a qui. E’ come crescere e non poter più mettere quelle scarpe tanto amate, compagne di avventure e giochi perché il piede è diventato più grande. Le si può utilizzare ancora per un po’, facendoci venire le fiacche e tenendo le dita rattrappite, ma arriva il momento, doloroso ahimè, dove bisogna buttarle e comprarne un paio di una taglia più grande. E in quel momento di decisione che vivono due sentimenti apparentemente contrastanti: il dolore della perdita e la gioia per esserci liberati di qualcosa di scomodo.

Poi si sa, il primo tuffo in mare è sempre freddo ma poi com’è piacevole nuotare.....

Riflettevo appunto su questa sensazione da brivido freddo, quella paura senza nome e senza volto che mi ricorda quel folle terrore infantile per il buio (io ho ancora paura del buio a 36 anni guarda un po’), acquistando un biglietto aereo per andare una settimana a Valencia. Dico, una settimana a 1000 km di distanza da qui, in un posto dove ho vissuto per 5 anni. Mentre cliccavo su acquista sudavo freddo ed avevo il batticuore. Ma ti pare??? E da qui ho incominciato a ragionare che forse non mi ha spaventato tanto spendere 30 euro,dover organizzarmi per sistemare il cane e trovare un parcheggio in aeroporto, ma il rimando al cambiamento, al movimento interiore, che attraverso il viaggio fisico da uno paese all’altro, riproponeva  questa battaglia  tra il restare dove si è o esplorare qualcosa di nuovo. Oppure ritornare in luoghi dell’anima conosciuti ma abbandonati.
Cess, suggunnumammaruabagassa (locuzione interiettiva in dialetto sardo) !!!!!

E uno potrebbe pensare: ma quante storie, che “menoso”; non è che se fai qualcosa di nuovo ti si rivoluziona per forza la vita. Il cambiamento non porta con sè necessariamente rivoluzione. In linea di massima sono d’accordo con questo pensiero, però per quanto mi riguarda, funzionando in modo anomalo, i miei cambiamenti sono sempre “macro” e mai “micro”. Pur non avendo fatto molti viaggi, quando decisi che era il momento di cambiare aria, sono andato a vivere per 5 anni in Spagna. 
Quando ho deciso che non volevo più vivere con i miei genitori me ne sono andato in un giorno. Insomma per me un cambiamento porta con sé sempre l’abbandono di qualcosa. E solitamente è un’esperienza traumatica. Non riesco a concepire un lento e graduale movimento da un punto A ad un punto B. Io mi sfracello cadendo da A a Z senza paracadute. Forse, in questo periodo, è la prima volta che sto sperimentando un cambio meno repentino perché sono aggrappato con denti e unghie alla mia ancora mentre nave e ciurma stanno per essere inesorabilmente trascinate via. E forse non è detto che debba per forza abbandonare qualcosa alla quale sia profondamente legato, forse la mia energia è tale da poter viaggiare con uno zaino un po’ più pesante. Forse.

Non riesco a pensare un viaggio portandomi tutto quello che ho stando fermo. E’ come voler andare in vacanza con la propria casa. O come quelli che si portano tutto il guardaroba perché non si sa mai. Se si parte è meglio farlo leggeri  per poter acccogliere ciò che di nuovo un viaggio ha da dare e regalare. E’ altresì auspicabile essere pronto agli imprevisti, alle sorprese. Non si può viaggiare con certezze. La certezza risiede nella sedentarietà non nel movimento. Il movimento è mistero, è sconosciuto è novità.


E per quanto stia comodo nel mio lettone di certezze, coperto da un soffice piumone di comprensione e abitudine, incomincio a sentire la presenza scomoda di quel pisello sotto il materasso che tanto aveva infastidito una principessa.
Capisco ora che la saggezza di quella favola mi è molto utile: per quanto io possa coprire o riempire la mia vita con morbidi materassi, mettendone anche uno sull’altro per non SENTIRE un elemento disturbante (o un messaggio di cambiamento se vogliamo), rimarrà la sensazione di fastidio, di inadeguatezza. Sempre. E finchè non toglierò tutti gli strati e RICONOSCERO’ quel minuscolo pisello (scegliendo di rimuoverlo o tenendolo ma comunque riconoscendolo), non potrò dormire sonni tranquilli.


Ansia, ansia ansia.


martedì 11 ottobre 2016

MONEY RACE (LA GARA CONTRO IL DENARO)

Giusto quando pensavo che almeno su quel fronte fossimo più o meno tranquilli, ecco che ritorna l’ansia da mancanza di denaro. Da poco avevo maturato il concetto che forse, dal punto di vista karmico, il denaro non è qualcosa di irrisolto per me. E’ vero che non ne ho mai di soldi, ma è altresì vero che, quando ci sono seri imprevisti o problemi economici, riesco sempre a cavarmela e a risolvere tempestivamente e in maniera efficiente (quasi sempre grazie al buon cuore e alle tasche di qualcun altro!).

Ogni imprevisto, piccolo o grande che sia, crea una crisi economica nella mia famiglia. Faccio prima a dire che vivo in crisi economica da sempre. I soldi non mi bastano mai. Sia che faccia vita da monaca di clausura, sia che mi conceda qualche vizio e/o piacere.

Ad oggi ci sono due fattori che incidono sulla disastrosa situazione economica che ci accompagnerà anche durante il mese di Ottobre: danni alla macchina e corso di canto. Il primo non voluto (ovviamente) ed il secondo tanto desiderato ma non necessario alla sopravvivenza pura. Ma pur non essendolo, lo volevo e ne sentivo il bisogno per poter continuare a coltivare la mia grande passione. 

E’ altresì vero che io non vivo da solo e non posso far pesare le mie scelte ad altri. E qui mi girano le palle e mi sento un ladro. Da un lato mi sembra di rubare soldi al mio compagno e dall’altro mi indigno perché è mai possibile che lavorando tutti i santi giorni, non possa concedermi una passione? 

Poi rifletto sul fatto che forse, se voglio studiare canto, allora il canto dovrebbe pagarsi da sé.  Ed invece sembra che a 36 anni, cantare per me sia solo un hobby costoso. Significa ancora essere immaturi voler fare qualcosa solo per il piacere di farlo? Ed è da illusi volerlo fare nella maniera più professionale possibile? Da un certo punto di vista si. Facendo fuoriuscire la signorina Rottermeier che è dentro di me, mi sistemo gli occhiali e mi guardo dall’alto in basso dicendomi : “se vuoi concederti il lusso di queste sciocchezze, allora trova il modo di non farlo gravare sul bilancio familiare fannullone artistoide!”. E nessuno degli altri personaggi che popolano la mia testa risponde.

L’angoscia di non arrivare a fine mese mi strazia e mi fa incazzare a morte con … me stesso. Si perché forse è il momento di riconoscere ciò che posso o non posso fare. Potessi tornare indietro, a malincuore, non mi iscriverei più a quel corso di canto che tanto oggi mi fa sentire in colpa, per voler fare qualcosa che mi piace ma che è al di sopra delle mie possbilità. Stessa cosa per la palestra. Fra poco meno di un mese scade l’abbonamento annuale e non potrò rinnovarlo. Forse riuscirò a pagare mese per mese per arrivare ad una spesa annua quasi doppia rispetto al pagamento dell’anno interno in una unica quota. Lo so che possa sembrare tutto superfluo e rinunciabile, la stessa “Rottenculen” mi direbbe:”l’importante è mangiare e pagare le bollette”, ma io non riesco a concepire una vita minimamente serena e appagante senza qualcos’altro che sia diversione, arte o cultura (dai vabbuò cultura poca diciamocelo).

E poi ci sono i debiti: piccoli prestiti per campare gli ultimi giorni, e grandi somme da restituire a simpatici istituiti. Ogni mese è barcamenarsi tra un “questo il mese prossimo “ e “questo bisogna pagarlo e allora rinunciamo a quest’altra cosa”.
La cosa che più mi fa imbestialire è a quanto pare, andare in palestra e frequentare un corso di canto sono per persone più agiate di me. E senza attività fisica e attività animica (quale il canto), la mia vita mi sembra quella di un automa che ripete le stesse azioni tutti i giorni seguendo un algoritmo installato nella sua scheda  madre.

E poi ovviamente c’è il cibo: lontani i giorni dove potevo scegliere liberamente cosa mangiare e dove comprarlo . Ad oggi le mie scelte alimentari (cercando di comprare il più sano possibile comunque) si restringono a ciò che ha da offrirmi una catena di discount. Quello che prima era un negozio “normale” adesso è diventato per benestanti. E io non “benestò” proprio per un beato cazzo.

Abbiamo deciso di fare qualche sacrificio in più per avere una casa con giardino, perché era un sogno (uno dei pochi realizzabili ) e perché l’abbiamo incontrata quasi senza cercarla. Abbiamo dovuto comprare due macchine perché è impensabile per uno dei due di muoversi con dei mezzi pubblici. Ovviamente una delle due auto è un vecchio catorcione (che ringrazio con il cuore di resistere da 3 anni) che ha bisogno di continua manutenzione.

Dove voglio arrivare con tutto ciò? Bhè, la mia riflessione parte dal nervoso che inesorabilmente mi spinge ad inveire contro il governo ed il sistema del  lavoro quando mi ritrovo a fare i conti e sapere già che rimarrò senza soldi prima ancora di averli in mano, ma in realtà sono dispiaciuto per non essere stato capace di creare una situazione lavorativo-economica personale e alternativa. C’è stato un periodo della mia vita dove mi si chiese di scegliere di seguire professionalmente la carriera di attore di teatro o di cantante jazz ed io rifiutai entrambe per paura di non poter gestire le spese e  le entrate così altalenanti tipiche degli artisti. Mi tenni stretto il mio stipendio fisso, il mio lavoro 8/17 Lunedì – Venerdi pur non potendo mai considerarmi benestante. E’ da quando vivo da solo che arrivo a fine mese rovistando tra i fondi della dispensa e centellinando la benzina.

Ma sarebbe ipocrita dare tutta la colpa alla società: io per primo non sono capace di gestire il denaro e lo sanno gli dei quanto ci ho provato. Budget limitato: ogni mese prelevavo subito quello che avrei dovuto spendere nell’arco dei 30 giorni senza poter prelevare altro. Fallito. Budget settimanale: togliendo le spese fisse, si stabiliva una quantità che dovesse bastare ad entrambi per le proprie spese quotidiane e per il cibo. Fallito. Limitare all’osso il superfluo: niente cene fuori, niente cibi costosi, niente shopping di nessun tipo: fallito. L’unico sistema che sembra funzioni è quello ad- minchiam ossia finchè ci sono spendili, poi piangi e dimagrisci.

E vi assicuro che a 36 anni risulta un po’ ingombrante questo lato infantile con il quale non si riesce a fare due conti e a rispettarli per un fottuto mese. Ogni volta che ho provato a mettere via fossero anche 50 euro alla fine, magari un giorno prima dello stipendio successivo, mi ritrovavo  a prenderli dalla cazzo di scatoletta di latta dove li riponevo con tanta speranza.
Se da un lato è vero che bisogna accettarsi come si è, abbracciando le proprie mancanze, dall’altro, si ha il dovere (che può essere visto come opportunità) per lo meno fare uno sforzo sincero ed impegnativo anche se si va incontro alla sconfitta.


Oggi più che mai mi auguro di trovare l’energia per continuare a perdere la mia corsa contro il denaro impegnandomi comunque al massimo. 

lunedì 10 ottobre 2016

LE OCCASIONI DEL CONTATTO

Fine settimana interessante.

Grazie a situazioni extra-ordinarie ho potuto specchiarmi e capirmi un po’ di più.
Sono una persona molto casalinga; la casa è il mio regno, il mio rifugio, il mio guscio, scheletro metafisico che protegge fragili organi interni. Sono il re del mio focolare, lord dei fornelli e marchese del divano.

Ma, come in ogni racconto epico che si rispetti, arriva sempre il momento della crisi. La mia è incominciata Venerdi, quando questo idilliaco reame di pochi abitanti, questa oasi di pace e serenità nel mezzo di boschi fatati, è stato invaso dagli stranieri!!!!!
Panico! Allarme! Chiudete tutti i cancelli, riempite il fossato, liberate gli alligatori, fiato alle trombe, fuoco ai cannoni, rifugiamoci nella cittadella fortificata, aiuto aiuto AIUTOOOOOOOOOOOOOOOO!

Questa è stata la prima reazione quando il mio ragazzo spia, doppiogiochista e traditore (nel racconto epico sarebbe il personaggio più vicino al protagonista ma anche il fautore della sua rovina), mi ha detto che avrebbe abbassato il ponte levatoio per far entrare questo gruppo di stranieri provenienti dall’altra parte dell’oceano. Oltretutto sarebbero arrivati il fine settimana, momento sacro per propiziare i miei riti arcani all’interno del mio tempio. E in 4! Quindi seconda camera e divano letto occupati! Insomma dovunque mi fossi girato avrei trovato invasori in casa mia!

In realtà, al ritorno dai miei viaggi cavallereschi, nessuno ha invaso niente: il mio cinema è la mia normale reazione ad eventi che io non scelgo e che alterano la mia quotidianità.
Ma, mi chiedo, dov’è finito quello spirito di avventura che mi permise di lasciare tutto anni fa e trasferirmi in un paese dove conoscevo solo una persona e non parlavo la lingua? Perché si è spento quel fuoco che bruciando ardentemente mi permise di condividere una casa con tedeschi intransigenti e spagnole con disturbi multipli della personalità? Probabilmente tutto ha un tempo, un momento che poi non è detto che ritorni in maniera leggermente differente. Mi piace pensare che l’evolversi della vita sia una spirale che va verso l’alto, dove le situazioni possono ripetersi ma con delle leggere differenze.

Intanto, il pensiero di avere della gente in casa che non mi avrebbe permesso di cantare le mie canzoni a squarciagola, sdivanarmi con tuta macchiata di candeggina e felpone con cappuccio, mi ha davvero messo in crisi.

Il venerdi sera mi sono rifugiato a casa di amici per non dover fare i soliti convenevoli, parlare di cose che non mi interessano ed entrare in contatto con persone che non conosco e non voglio conoscere. Poi il sabato ho dovuto affrontarli, ed ho scoperto che alla fine, pur costretto dalla situazione, sono contento che siano venuti e mi sono comportato da buon (sufficiente?) padrone di casa.

A parte che si tratta di gente educatissima, che voleva “disturbare” il meno possibile, ho respirato una ventata di Uruguay, terra del mio compagno. Parlare con loro in spagnolo, anzi uruguaiano (che si differenzia dal castellano per alcune espressioni e la pronuncia della doppia L), ricordare luoghi che ho visitato e persone che ho conosciuto, è stato come un ponte tra l’Italia e quel posto tanto incasinato dove vive la maggior parte della mia famiglia acquisita. Ed ho ritrovato in queste 4 persone quel disarmante affetto, quella semplicità nello stare insieme e quella mistica capacità di coinvolgermi emotivamente che non può non toccare e scaldare anche il più gelido dei cuori. Mi sentivo il Grinch commosso dalla tenerezza dei Nonsochi. Non so cosa sia che mi tocca tanto, che mi fa venire una voglia struggente di prendere il primo aereo e riabbracciare gente che praticamente conosco da 2 giorni o che ho visto una volta.

La loro presenza mi ha ricordato i sorrisi genuini, la leggerezza con la quale ho visto affrontare giornate pesantissime, il dolore condiviso non da due ma da 20 persone tutte unite che non può che tirare su il morale e la grande voglia di rendere una vita a tratti difficile e nemica, in tanti momenti  di piccole gioie.
Ho sentito amore per la famiglia, una famiglia che va oltre le parentele strette, che include i vicini e gli amici di amici. Mi sono ricordato della voglia costante e inebriante di condividere, sempre e comunque, soprattutto quando buoni motivi per farlo non ce ne fossero.
Forse in un'altra vita ero un sud americano, un italiano che ha affrontato il grande viaggio oltreoceano o magari un indigeno del posto prima della colonizzazione occidentale. Non so, ma a parte il fascino che in generale il sud America ha sempre suscitato in me, mi sento profondamente attratto da questa gente, da questi parenti lontani che con dignità e amore affrontano ogni giorno sorridendo.

E così ieri pomeriggio, nel salutarli, avevo un po’ un nodo in gola, pur essendo felicissimo di essermi riappropriato del mio castello, che però  improvvisamente  sembrava un po’ troppo grande, un po’ troppo vuoto.

E questo essere toccati dagli altri, con questa regola bizzarra del meno li conosci e più entrano dentro di te, si riallaccia all’altra cosa interessante che mi è capitata.
Venerdi sera appunto mi sono rifugiato da amici come ogni buon sovrano il cui regno sia stato invaso senza nessuna possibilità di resistenza e mi è stato proposto di partecipare ad un progetto che riguarda la connessione tra sconosciuti in relazione alla scrittura. La cosa più interessante è che, se le cose andranno in porto, non sarò un partecipante ma il conduttore insieme alla cugi, esperta nel gestire e far lavorare insieme gruppi di persone.

A parte l’analogia delle situazioni dove da una parte mi si propone di gestire delle persone che attraverso l’arte entrano in contatto con sè stessi e con gli altri e quella di ritrovarmi nel mezzo di una famiglia di sconosciuti da intrattenere in casa mia, sono terrorizzato dall’idea di mettermi in gioco.
Un po’ è la stessa paura nell’affrontare situazioni fuori dalla routine. Con routine non intendo necessariamente sempre le stesse cose ma situazioni conosciute e con una cadenza precisa. Lo spavento è direttamente proporzionale al mio non scegliere la situazione. Tipo se io decido di andare ad un corso di teatro, sono io che scelgo una situazione nuova quindi tutto bene. Ma se mi ritrovo in una situazione che io non ho né scelto né programmato, allora vado in corto circuito, in avaria.

E mi sembra che in quest’autunno schizofrenico ci sia una vocina nell’aria, un sussurro leggero che mi solletica le orecchie. Mi dice di andare avanti, di muovermi, di camminare e di abbracciare tutto ciò che mi capita (a prescindere dal fatto che io lo scelga o meno) e viverlo.  Senza aspettative, ma soprattutto  senza pre- concetti e pre-giudizi. Senza paura di non essere in grado o non poter realizzare completamente le mie intenzioni, perché non c’è nulla di male nel provare qualcosa e dire non mi piace o non ce la faccio. Comunque rimane un vissuto che accresce la consapevolezza di sé. 

E’ nel rifiuto, nell’evitare situazioni nuove che si crea una stasi, un momento di non-vita, un’occasione persa che probabilmente non tornerà come tale.
Con questo non voglio dire che se domani mi propongono di provare a fare il macellaio mi metta a sgozzare maiali come se non ci fosse un domani (nulla contro i macellai) ma ognuno di noi sa quando evita di fare un’esperienza perché è completamente al di fuori del proprio modo di essere o perché si ha paura. Paura maledetta che non permette ai polli di trasformarsi in aquile e volare alto nel cielo.

Questa settimana ho accettato la sfida karmica e forse ho pagato qualche debito (o almeno uno spero): avrei potuto evitare queste persone in maniera molto semplice, avrei potuto vivere davvero questi due giorni come un’invasione con un senso d’ingiustizia nei confronti del mondo intero. Avrei potuto trattarli con sufficienza, fare finta che non ci fossero, far capire loro che il mio tempo è più importante della loro presenza ed invece ho scelto di cavalcare l’onda e di arrivare a riva nel modo più piacevole e divertente possibile. E così è stato. Pur convivendo in me una parte che guardava nostalgico l’orizzonte della propria solitudine. E poi ho detto si ad un progetto che spero possa aprire ed oliare quel portone che mi sono costruito tra me e gli altri.

So chi sono e so da dove vengo (ogni anno sempre di più per lo meno) e in me sempre rimarrà un po’ di quel verde e peloso Grinch che disprezza tutti e sguazza nella propria immondizia, ma mi dico “bravo” quando riesco a trasformare una situazione apparentemente fastidiosa in un’ esperienza che, per lo meno, vale la pena essere vissuta con tutto me stesso.

Che si aprano i cancelli, che si spalanchino le porte e che si buttino via le chiavi. 


venerdì 7 ottobre 2016

LA STRONZA, IL BASTARDO ED IL DEVOTO

La premessa a questo post è che amo leggere. Leggo da quando ne ho memoria. Leggo per non pensare, per viaggiare, per conoscere, per vivere esperienze, per soddisfare una fame che il cibo non può calmare.
Leggo con rispetto e con devozione quegli autori che creano mondi e realtà parallele che io non potrei mai immaginare. Posso solo entrarci in punta di piedi con gli occhi e la bocca sbarrati dalla meraviglia.

Ora lo sfogo.

Che delusione, che grande delusione l’ultimo “libro” di Harry Potter. No e no e no e ancora no! 
A parte che non capisco come tu, J.K. ROWLING, possa ideare una nuova storia del mago prescelto e decidere di farne solo una rappresentazione teatrale dopo 7 libri dico 7! Cioè, a noi poveri lettori che abbiamo atteso con ansia la fine di quella bellissima saga, ci fai rimanere come dei salami perché ovviamente non possiamo venire a Londra per vedere l’opera. E già qui mi stai gradevolmente sui coglioni.

Poi però viene fuori che vuoi pubblicare il libro. Ma prima scrivere il romanzo e poi farne una rappresentazione no? Per quanto la storia possa essere banale e poco coinvolgente vuoi che i fan del mondo di Harry Potter non vadano in brodo di giuggiole appena sentono la notizia di una nuova storia 19 anni dopo? Ma si stronza, certo che si!

Quando lessi la notizia dell’uscita di questa opera teatrale mi infuriai, adesso sono solo indignato, e pensai “che si fotta la Rowling, Harry e i suoi figli”. Basta, non ho voluto leggere niente al riguardo e come un fidanzato abbandonato dopo anni di dedizione e amore, cancellai il numero di telefono, tolsi l’amicizia e minacciai gli amici in comune o lei o io. Ho evitato qualsiasi informazione al riguardo, fino a quando  i “sordidi cugis”, con i quali ho condiviso la lettura e le emozioni della saga Potter, mi hanno entusiasmato dicendo” l’ho prenotato, l’ho prenotato ! Il 26 mi arriva l’ultimo libro!”

E così, ho rivissuto in un attimo, le ore, i giorni, i mesi spesi immersi in quel fantastico mondo…. Le serate passate ad interpretare la profezia, a fare congetture sul futuro di Harry, a compiangere la morte di Silente, sospettando che Piton stesse facendo il doppio gioco. Insomma mi è salita la nostalgia per la vibra Potter e così ho ceduto e ho comprato Harry Potter e la maledizione dell’erede.
Titolone no? Erede di Harry visto che ha 3 figli no? Non voglio commentare la trama (comunque risicata rispetto alla complessità delle opere precedenti), ma voglio contestare il formato! Sulla copertina c’è scritto in evidenza VERSIONE SPECIALE SCRIPT BOOK! Ma speciale di cosa ? COSA? La stronza ha preso il copione teatrale e ha detto “cia dai facciamoci qualche altro milione di sterline, butta lì una traduzione, rileghiamo e fottiamo tutti i fans!!!!!”

E la seconda volta che leggo un libro versione sceneggiatura e la cosa non mi piace. Prima di tutto perché le pagine da leggere sono necessariamente meno rispetto ad un romanzo e secondo perché manca quella mano che ti prende delicatamente e ti accompagna di nuovo in un mondo conosciuto ed amato. Leggendo la maledizione dell’erede ero uno spettatore che vedeva attori su un palcoscenico recitare i personaggi di un libro. E’ una cosa perversa non trovate? Leggere un libro immaginando sconosciuti che interpretano i protagonisti di un libro. Ma vaffanculo J.K. di sta cippa!
Ma la cosa che mi fa veramente incazzare è che alla STRONZA, facendo la scrittrice di lavoro, non sarebbe costato molto romanzare un progetto teatrale. Ce lo doveva! L’abbiamo fatta diventare stra ricca e famosa!

CRUCIO!!!!

E oltretutto, anche la trama mi sembra un po’ buttata lì. Immagino che il modo di scrivere un romanzo ed un opera teatrale siano completamente diversi e per tempi, storia, personaggi. Ma quando leggevo “ entra in scena tal personaggio”, rabbrividivo.
Insomma, non si può non tenere conto di milioni di lettori nel mondo che aspettano nuove avventure del loro mago preferito (anche se a me Harry sta sulle palle) e buttare li due dialoghi presi dalla rappresentazione teatrale. Vuoi fare uno spettacolo? Bravissima ma prima onora chi ti ha dato tanto e concludi con un romanzo ciò che con un romanzo è cominciato. Punto.

IMPERIO!!!!!

Un altro scrittore che se trovo in giro lo investo con la macchina (meglio un fuoristrada vista la mole) è il bastardo George R.R. Martin. Ho scoperto la saga IL TRONO DI SPADE molti anni prima dell’uscita della serie televisiva. Un modo di scrivere adulto, crudo, una trama originale, personaggi complessi e ben strutturati, insomma un capolavoro fantasy per adulti. Fantastico. Dopo il quarto libro (li ho letti tutti insieme perché all’epoca erano già stati stampati) ho aspettato due anni per La danza dei draghi. Forse 3. E fin qui, va bene, aspetto. So che scrivere un’ opera tanto complessa richiede del tempo.

Poi arriva l’altrettanto stupenda serie televisiva. Per essere chiari… quando uscì la prima stagione, quindi 6 anni fa,( 6 !) stavamo aspettando l’uscita del sesto libro. Adesso va bene tutto, ok gli impegni, l’età che avanza e l’elasticità mentale che si perde poco a poco; ma puoi far uscire 6 stagioni di una serie tratta dai tuoi romanzi, farti superare e non avere ancora pubblicato il sesto libro? PUOI BASTARDO MALEDETTO????

AVARA KEDAVRA!!!!

Ma non hai vergogna? E quando passeggi per il paese nel quale vivi, la gente non ti sputa in faccia? Io lo farei. E l’orgoglio? Hai lasciato che qualcun altro (pur consultandoti certo) continuasse le storie dei tuoi personaggi. Ma ti pare? Cosa fai il panettiere di notte che di giorno sei troppo stanco e non riesci a scrivere?
Uno scrittore di successo ha un dovere nei  confronti del propri lettori: iniziare e concludere le storie che crea e che la gente ama.

Un esempio di virtù e dedizione è il, riposi in pace, grandissimo Robert Jordan. Un autore molto serio, che anche in punto di morte, si è organizzano per garantire la conclusione della stupenda saga La ruota del tempo, la mia saga fantasy preferita. Avendo scoperto una malattia e verificato che non avrebbe avuto il tempo materiale  di concludere la saga, il compianto Robert, insieme alla moglie, ha cercato un altro autore che potesse terminare le vicende di Rand Al’Thor al suo posto. Ha collaborato con lui finchè ha potuto lasciando chiare indicazioni a Brandon Sanderson e alla moglie su come la storia doveva svilupparsi verso il suo epilogo. Questo è essere scrittori fino in fondo: un po’ alla David Bowie e il suo ultimo disco. L’arte che supera la morte e diventa eterna. Complimenti ! E ringrazio te e Brandon Sanderson (altro ottimo scrittore adult-fantasy) con tutto il cuore per aver concluso un opera così vasta e complessa. Il vostro amore per la professione e per i personaggi creati si legge in ognuna delle migliaia di pagine dei  14 volumi.


Che la stronza ed il bastardo imparino dal devoto. 
STUPEFICIUM!!!

A BUG'S LIFE

Uff … difficile è uno degli aggettivi ai quali associo molti pensieri in questi giorni.

E’ difficile riprendersi da un raffreddamento, anzi conviverci volendo continuare la vita di tutti i giorni con i suoi tempi ed impegni. 

Difficile non perdere l’uso di una lingua straniera che amo, che mi ha regalato una declinazione di me stesso fondamentale per l’Ivano che sono oggi.

Difficile scegliere a cosa rinunciare quando il tempo non ti permette di fare tutto, e difficile essere predisposto alla condivisione quando si cerca isolamento e tranquillità.

E’ difficilissimo seguire una dieta sana, mangiare ad orari stabiliti, mantenere un equilibrio nutrendosi con varietà e non cedere alle tentazioni.

Quasi impossibile arrivare a fine mese, soprattutto quando ci sono degli imprevisti che, visto la frequenza, diventano delle spiacevoli costanti.

Difficile è voler realizzare un progetto a cui si da amore e sudore ed avere il cosmo intenso che continua a lanciare bastoncini tra le ruote. Maledetto.

E’ difficile sperare in un momento migliore quando stai vivendo quello peggiore.

Difficile sorridere alle avversità e difficilissimo scoprire l’occasione per viversi in maniera nuova, diversa.
E’ difficile rimanere a galla senza saper nuotare.

E’ una vita di difficoltà di diverse intensità.

Difficoltà che spesso si trasformano in trampolini per saltare in oceani di nuove possibilità ma che a volte sono solo dei buchi che ti fanno cadere ad una velocità pazzesca verso il centro della terra.

La difficoltà è utile alla crescita, all’adattamento, all’evoluzione personale. La biologia e la storia insegnano.
E la vita è un’ottima palestra per sviluppare questo talento da scarafaggio, questa corazza tenace che resiste e si adatta ai cambiamenti, per quanto violenti possano essere.
Ci si allena fin da piccoli quando si scopre la disarmante verità copernicana per la quale non siamo il centro dell’universo ma solo un corpo in movimento. La viviamo quando ci deludono per la prima volta i nostri amati genitori, quando a scuola incontriamo il bullo della situazione (anche nel caso in cui il bullo siamo noi). Il primo amore non corrisposto e via così fino alla scoperta che il mondo del lavoro si discosta inesorabilmente dai sogni di studente.

Insomma la vita è in salita quasi sempre per chi si accorge che il movimento è necessario ad una conoscenza più ampia e profonda di se stessi e alla propria realizzazione.
Chi ignora di solito non incontra molte difficoltà e quando lo fa, la situazione non dipende da lui e quindi non ha bisogno di cercare dentro di sè motivazioni e risposte per superarsi.
Con l’ignorante intendo chi non cerca di dare senso e direzione alla propria vita, chi si lascia trascinare beato senza aggrapparsi alle rocce bagnate che fuoriescono dall'acqua per poter andare contro corrente. Che invidia, lo dico con il cuore.

Sono sempre alla ricerca di una serenità, di un equilibrio, ma mi rendo conto che si tratta solo di una chimera, un’utopia: la serenità è un lusso di pochi eletti e io non sono tra quelli. Ogni volta che raggiungo un nodo da sciogliere, ne trovo subito un altro più grande e più complesso. E’ la mia indole, il mio carattere comune a tutti i nevrotici, gli incontentabili, gli insofferenti. Sono uno di quelli che raggiunta una vetta ,invece di godersi il panorama, pensa  già a quanto ci metterà a scendere con ansia di raggiungere la montagna successiva.

La soddisfazione serve solo per riprendere fiato, la meta è il movimento ed il continuo superamento di sè stessi nel continuo divenire, in un moto perpetuo.

Uno scambio continuo di energia tra me e il mondo che ogni giorno cambia le regole di un gioco dove non si vince mai, ma si continua a tirare i dadi e muovere pedine sperando di andare sempre avanti ritirando qualche soldo passando dal via.