Continuano giorni
intensi, nuvolosi, carichi di pioggia e di emozioni. Sono stanco, a tratti
nervoso perché mangio di fretta e dormo poco ma il prezzo da pagare per quello
che ottengo in cambio è più che equo. Questo è il mio autunno, ricco, colorato,
pieno di sorprese e momenti magici. Momenti come quello di ieri sera, alla
Corte Dalì. Primo incontro per il laboratorio di scrittura creativa del quale
sono co organizzatore e partecipante. Ritrovare un gruppo dopo gli anni del
teatro è stato stupendo: un salto nel
passato, dove un Ivano 21enne si buttava in cerchio tra sconosciuti con un
sorrisone de ebete. Supportati e guidati dalla sapiente voce della cugi, 7
estranei (o più o meno conoscenti) si sono presi per mano, abbracciati,
lasciati condurre, osservati, salutati. Abbiamo condiviso risate, sensazioni e
parole intime anche quando di intimo non si voleva (razionalmente) condividere nulla.
Mi rendo conto che il contatto tra le persone sia fisico che
emozionale è troppo assente nella nostra società. Dipendesse da me farei fare
esercizi di attivazione e connessione a tutte le aziende, a tutte le famiglie e
a qualsiasi tipo di gruppo, almeno una volta alla settimana.
Questo lasciarsi andare nel flusso di energia che ogni corpo
emana, questo respiro collettivo tanto intimo quanto universale è molto
appagante. C’è una commistione di rischio (nel mettersi in gioco) e di fiducia
(toccando e facendosi toccare dall’altro). Un dialogo tra anime, tra muti
esseri divini, dove ci si riconosce subito come simili.
Ieri, ovviamente, io ero in ansia. La prima volta che mi
specchiavo non solo come partecipante ad un progetto ma anche come referente. Sentivo
comunque una buona energia e sapevo che almeno da parte mia, l’avrei vissuta
bene. Speravo tanto che anche gli altri partecipanti fossero colpiti da questo
bel progetto e invogliati a tornare. Un po’ imbarazzato, sudaticcio, con il
cuore che batteva sempre forte e scandiva ogni istante, mi sono incontrato tra
gli sguardi, le mani, le voci, il respiro ed è stato un viaggio breve ma intenso,
mi sono riappropriato della parte più umana e magica.
Senza tante parole sono entrato in sintonia con queste
persone, queste anime che provengono da posti diversi, che erano lì per motivi
diversi e vedono il mondo probabilmente in una maniera diversa dalla mia. Ma
quello che sempre mi stupisce e mi fa capire che veramente siamo gocce dello
stesso oceano è la facilità con la quale si può entrare in connessione. Dopo un’
ora quegli estranei erano compagni di viaggio. Il contatto con le loro mani mi
ha raccontato parte del loro essere, gli sguardi da curiosi sono diventati
complici, i movimenti più fluidi, i sorrisi più caldi.
Tanto può essere differente la forma e quanto simile la
sostanza.
Tutto il lavoro di riscaldamento e di contatto con sé stessi
e con gli altri è sfociato poi nel momento della scrittura che è stato
esattamente come suggerisce il titolo del laboratorio: creativa. Da un momento
di osservazione, di meditazione su un qualsiasi oggetto della stanza, ognuno ha
creato un’ode: chi di un temperamatite, chi di un ramo, un calorifero, una
matita, un disegno sul muro. Utilizzare un oggetto banale, guidati da chi sa
guidare ovviamente, per scoprire che ciò che utilizziamo senza pensarci il più
delle volte, ha una sua storia, ha un’origine,
ha uno spazio e una relazione con chi lo utilizza e chi lo ha creato. Per
ognuno degli oggetti di uso quotidiano si potrebbero scrivere pagine e pagine.
Ed ognuno ha scritto qualcosa di intimo, di piacevole, di
valido dal punto di vista tecnico-letterario e soprattutto vero. Almeno per me. Ed è questo concetto di
verità che continua a ronzarmi nella testa: forse il termine non è corretto ma
mi piace. Esprimere le proprie verità che sono tante e uniche per ognuno di noi
è uno dei più bei doni si possa fare all’altro. Ascoltando queste odi, mi sono
sentito gratificato da tanti regali. Persone che, per la maggior parte
conoscevo da un’ora, mi hanno donato senza indugio, generosi, un pezzettino di
chi sono ed io mi sento più integro, più completo, più comodo e accolto in
questo mondo nel quale spesso mascheriamo la bellezza e la semplicità con
rigide e fredde strutture.
Il condividere, non attraverso la parola (con la quale
possiamo nasconderci o costruire maschere), ma attraverso il corpo, i sensi e
le emozioni, sono esperienze che ricordano che siamo tutti uguali, tutti
affamati di amore e comprensione e in cerca di armonia.
Ma quanto spesso ci dimentichiamo (o non ci siamo mai resi
conto) della semplicità con la quale ci si può toccare? Quanti problemi
esistenziali o di appartenenza potrebbero essere risolti (o evitare che nascano
addirittura) se solo ci fosse più contatto? La mia non è esaltazione da
overdose di zuccheri, ma la costatazione di un fatto. E’ vero che sono in un momento di apertura e
quindi mi è un pochino più facile ricevere e dare, ma non sono un figlio dei
fiori, un “freakettone”; non sono un folletto che parla con gli animali e fa
ghirlande di margherite. Sono immerso nella materia del mio quotidiano, impreco
e mi innervosisco nel traffico e faccio parte integrante del meccanismo
(orribile) dell’economia sociale. Sono razionale, diffido degli imbonitori, dai
buonisti, dai sorrisoni, di coloro che esaltano lo splendore del mondo perché so
che vivere e viversi può essere a volte il più spaventoso dei film horror o il
più noioso dei film d’autore francese. Ma è innegabile che se si entrasse più
in contatto diretto con gli altri (ovviamente accompagnati da persone preparate
e con gli strumenti per farlo) senza convenevoli e coperture, la vita sarebbe
in generale più semplice, più intensa, più soddisfacente e più bella.
Capisco benissimo che fare il primo passo non è facile.
Siamo così irrigiditi dalle strutture sociali, dai ruoli (figlio, moglie,
impiegato, stronzo, algido, vittima, stupido, fallito) che il movimento
naturale e non condizionato è difficile. Ma consiglio a tutti di provare a
farlo questo passo, perché una volta dentro al cerchio ci si sente a casa e ci
si sente vivi. Ci stiamo sempre più velocemente zombizzando, utilizzando solo
la ragione (e anche poco direi). Ci stiamo perdendo la parte più viva e il
motivo per il quale passeggiamo su questa terra tutti insieme. Depositarsi nell’altro,
meglio se sconosciuto, ti restituisce qualcosa, non so ancora bene come
spiegarlo. Ma ieri, sentendomi così presente e contento in mezzo a gente che non conosco, mi ha fatto
capire, anzi no, sentire, senza possibili dubbi o incertezze, che siamo figli
della stessa madre, che siamo fratelli.
Io per anni ho rimosso questo sentire, mi sono trincerato
nel mio castello di razionalità e sfiducia nel prossimo. Ho visto con i miei
occhi come un prato fiorito possa diventare deserto in poco tempo. E metto in
conto che possa accadere di nuovo. Ma mentre dura questo stato di grazia (che
poi potrebbe essere il quotidiano di ogni uomo sulla terra) me lo godo.
Questa precarietà nel mantenere un sentire che è fondante la
natura umana, mi fa pensare che sia la società a volerci distanti, isolati,
soli, perché così ci si controlla meglio. Ritengo che sia contro la natura
dell’uomo essere separato dagli altri. La condivisione e la comunione sono
caratteristiche, impulsi di specie. Eppure noi, con la nostra intelligenza e
perfidia diabolica, siamo riusciti a renderci estranei alla nostra natura,
interponendo tra noi e l’altro migliaia di schermi, di pulsanti, di obbiettivi
, telecamere, display. Abbiamo creato
suddivisioni, catalogazioni, caste, classi sociali, colori migliori rispetto ad
altri. Ci siamo inventati un sistema per rimarcare le differenze e per sottolinearle con disprezzo invece che
vederle come un’occasione per condividere e crescere.
Quanta gente c’è intorno noi pienamente soddisfatta, grata e sazia di vita? Intorno a me, e me compreso,
poca. Eppure ieri ero completamente appagato, centrato e direi benedetto da un
semplice cerchio di persone che si sono prese per mano e hanno comunicato
attraverso l’arte. Complicato? Costoso? Solo per pochi? No. Questo modo così
semplice di interconnettere è diventato complesso nella misura in cui ci
allontaniamo da noi stessi e dagli altri. Aumentando la distanza e ponendo
sempre più filtri nelle relazioni risulta poi difficile se non disgustoso
toccarsi.
Io sono il primo a cui non piace essere toccato troppo e
soprattutto da chi non conosco. Ma perché? Mi sporcano? Mi danneggiano? E’ la paura di essere feriti se esposti o l’educazione
a non fidarsi mai di nessuno? Ci sono così tanti mostri in giro? Ma soprattutto
è questa la prospettiva che vogliamo utilizzare per osservare il nostro mondo?
Morte, distruzione, violenza, cupidigia, insensibilità e solitudine?
Siamo arrivati a mettere telecamere in qualsiasi ambiente
perché l’uomo non si fida del suo vicino di casa, del suo simile. Si affidano i
propri figli a gente che deve essere controllata da un’entità esterna. Ma dov’è
il senso in tutto ciò? Se non mi fido di nessuno sarà meglio tenere i miei
figli a casa mia. Meglio fare la spesa online, parlare solo attraverso i
telefoni e mettersi un casco per la realtà virtuale per andare a fare una
passeggiata.
Finiremo veramente tutti sorridenti e falsi per farci
mandare più like possibili? Sarà la popolarità nei social a determinare il
nostro status sociale? (la serie Black Mirror docet). Non voglio giudicare, ciò
che succederà avrà un suo perché nel significato evolutivo della razza umana,
ma di fronte a queste prospettive (che mi sembrano senza senso) scelgo allora
di stringere forte le mani di uno sconosciuto e sentirmi parte di un universo
vivo e pulsante guardandolo negli occhi. Finchè non arriverà, inevitabilmente
il Matrix.