giovedì 27 ottobre 2016

LA FIDUCIA DELLO SCONOSCIUTO

Continuano  giorni intensi, nuvolosi, carichi di pioggia e di emozioni. Sono stanco, a tratti nervoso perché mangio di fretta e dormo poco ma il prezzo da pagare per quello che ottengo in cambio è più che equo. Questo è il mio autunno, ricco, colorato, pieno di sorprese e momenti magici. Momenti come quello di ieri sera, alla Corte Dalì. Primo incontro per il laboratorio di scrittura creativa del quale sono co organizzatore e partecipante. Ritrovare un gruppo dopo gli anni del teatro  è stato stupendo: un salto nel passato, dove un Ivano 21enne si buttava in cerchio tra sconosciuti con un sorrisone de ebete. Supportati e guidati dalla sapiente voce della cugi, 7 estranei (o più o meno conoscenti) si sono presi per mano, abbracciati, lasciati condurre, osservati, salutati. Abbiamo condiviso risate, sensazioni e parole intime anche quando di intimo non si voleva (razionalmente) condividere nulla.

Mi rendo conto che il contatto tra le persone sia fisico che emozionale è troppo assente nella nostra società. Dipendesse da me farei fare esercizi di attivazione e connessione a tutte le aziende, a tutte le famiglie e a qualsiasi tipo di gruppo, almeno una volta alla settimana.
Questo lasciarsi andare nel flusso di energia che ogni corpo emana, questo respiro collettivo tanto intimo quanto universale è molto appagante. C’è una commistione di rischio (nel mettersi in gioco) e di fiducia (toccando e facendosi toccare dall’altro). Un dialogo tra anime, tra muti esseri divini, dove ci si riconosce subito come simili.

Ieri, ovviamente, io ero in ansia. La prima volta che mi specchiavo non solo come partecipante ad un progetto ma anche come referente. Sentivo comunque una buona energia e sapevo che almeno da parte mia, l’avrei vissuta bene. Speravo tanto che anche gli altri partecipanti fossero colpiti da questo bel progetto e invogliati a tornare. Un po’ imbarazzato, sudaticcio, con il cuore che batteva sempre forte e scandiva ogni istante, mi sono incontrato tra gli sguardi, le mani, le voci, il respiro ed è stato un viaggio breve ma intenso, mi sono riappropriato della parte più umana e magica.
Senza tante parole sono entrato in sintonia con queste persone, queste anime che provengono da posti diversi, che erano lì per motivi diversi e vedono il mondo probabilmente in una maniera diversa dalla mia. Ma quello che sempre mi stupisce e mi fa capire che veramente siamo gocce dello stesso oceano è la facilità con la quale si può entrare in connessione. Dopo un’ ora quegli estranei erano compagni di viaggio. Il contatto con le loro mani mi ha raccontato parte del loro essere, gli sguardi da curiosi sono diventati complici, i movimenti più fluidi, i sorrisi più caldi.

Tanto può essere differente la forma e quanto simile la sostanza.

Tutto il lavoro di riscaldamento e di contatto con sé stessi e con gli altri è sfociato poi nel momento della scrittura che è stato esattamente come suggerisce il titolo del laboratorio: creativa. Da un momento di osservazione, di meditazione su un qualsiasi oggetto della stanza, ognuno ha creato un’ode: chi di un temperamatite, chi di un ramo, un calorifero, una matita, un disegno sul muro. Utilizzare un oggetto banale, guidati da chi sa guidare ovviamente, per scoprire che ciò che utilizziamo senza pensarci il più delle volte,  ha una sua storia, ha un’origine, ha uno spazio e una relazione con chi lo utilizza e chi lo ha creato. Per ognuno degli oggetti di uso quotidiano si potrebbero scrivere pagine e pagine.

Ed ognuno ha scritto qualcosa di intimo, di piacevole, di valido dal punto di vista tecnico-letterario e soprattutto  vero. Almeno per me. Ed è questo concetto di verità che continua a ronzarmi nella testa: forse il termine non è corretto ma mi piace. Esprimere le proprie verità che sono tante e uniche per ognuno di noi è uno dei più bei doni si possa fare all’altro. Ascoltando queste odi, mi sono sentito gratificato da tanti regali. Persone che, per la maggior parte conoscevo da un’ora, mi hanno donato senza indugio, generosi, un pezzettino di chi sono ed io mi sento più integro, più completo, più comodo e accolto in questo mondo nel quale spesso mascheriamo la bellezza e la semplicità con rigide e fredde strutture.

Il condividere, non attraverso la parola (con la quale possiamo nasconderci o costruire maschere), ma attraverso il corpo, i sensi e le emozioni, sono esperienze che ricordano che siamo tutti uguali, tutti affamati di amore e comprensione e in cerca di armonia.

Ma quanto spesso ci dimentichiamo (o non ci siamo mai resi conto) della semplicità con la quale ci si può toccare? Quanti problemi esistenziali o di appartenenza potrebbero essere risolti (o evitare che nascano addirittura) se solo ci fosse più contatto? La mia non è esaltazione da overdose di zuccheri, ma la costatazione di un fatto.  E’ vero che sono in un momento di apertura e quindi mi è un pochino più facile ricevere e dare, ma non sono un figlio dei fiori, un “freakettone”; non sono un folletto che parla con gli animali e fa ghirlande di margherite. Sono immerso nella materia del mio quotidiano, impreco e mi innervosisco nel traffico e faccio parte integrante del meccanismo (orribile) dell’economia sociale. Sono razionale, diffido degli imbonitori, dai buonisti, dai sorrisoni, di coloro che esaltano lo splendore del mondo perché so che vivere e viversi può essere a volte il più spaventoso dei film horror o il più noioso dei film d’autore francese. Ma è innegabile che se si entrasse più in contatto diretto con gli altri (ovviamente accompagnati da persone preparate e con gli strumenti per farlo) senza convenevoli e coperture, la vita sarebbe in generale più semplice, più intensa, più soddisfacente e più bella.

Capisco benissimo che fare il primo passo non è facile. Siamo così irrigiditi dalle strutture sociali, dai ruoli (figlio, moglie, impiegato, stronzo, algido, vittima, stupido, fallito) che il movimento naturale e non condizionato è difficile. Ma consiglio a tutti di provare a farlo questo passo, perché una volta dentro al cerchio ci si sente a casa e ci si sente vivi. Ci stiamo sempre più velocemente zombizzando, utilizzando solo la ragione (e anche poco direi). Ci stiamo perdendo la parte più viva e il motivo per il quale passeggiamo su questa terra tutti insieme. Depositarsi nell’altro, meglio se sconosciuto, ti restituisce qualcosa, non so ancora bene come spiegarlo. Ma ieri, sentendomi così presente e contento  in mezzo a gente che non conosco, mi ha fatto capire, anzi no, sentire, senza possibili dubbi o incertezze, che siamo figli della stessa madre,  che siamo fratelli.

Io per anni ho rimosso questo sentire, mi sono trincerato nel mio castello di razionalità e sfiducia nel prossimo. Ho visto con i miei occhi come un prato fiorito possa diventare deserto in poco tempo. E metto in conto che possa accadere di nuovo. Ma mentre dura questo stato di grazia (che poi potrebbe essere il quotidiano di ogni uomo sulla terra) me lo godo.

Questa precarietà nel mantenere un sentire che è fondante la natura umana, mi fa pensare che sia la società a volerci distanti, isolati, soli, perché così ci si controlla meglio. Ritengo che sia contro la natura dell’uomo essere separato dagli altri. La condivisione e la comunione sono caratteristiche, impulsi di specie. Eppure noi, con la nostra intelligenza e perfidia diabolica, siamo riusciti a renderci estranei alla nostra natura, interponendo tra noi e l’altro migliaia di schermi, di pulsanti, di obbiettivi , telecamere, display.  Abbiamo creato suddivisioni, catalogazioni, caste, classi sociali, colori migliori rispetto ad altri. Ci siamo inventati un sistema per rimarcare le differenze  e per sottolinearle con disprezzo invece che vederle come un’occasione per condividere e crescere.

Quanta gente c’è intorno noi pienamente soddisfatta, grata  e sazia di vita? Intorno a me, e me compreso, poca. Eppure ieri ero completamente appagato, centrato e direi benedetto da un semplice cerchio di persone che si sono prese per mano e hanno comunicato attraverso l’arte. Complicato? Costoso? Solo per pochi? No. Questo modo così semplice di interconnettere è diventato complesso nella misura in cui ci allontaniamo da noi stessi e dagli altri. Aumentando la distanza e ponendo sempre più filtri nelle relazioni risulta poi difficile se non disgustoso toccarsi.


Io sono il primo a cui non piace essere toccato troppo e soprattutto da chi non conosco. Ma perché? Mi sporcano? Mi danneggiano?  E’ la paura di essere feriti se esposti o l’educazione a non fidarsi mai di nessuno? Ci sono così tanti mostri in giro? Ma soprattutto è questa la prospettiva che vogliamo utilizzare per osservare il nostro mondo? Morte, distruzione, violenza, cupidigia, insensibilità e solitudine?

Siamo arrivati a mettere telecamere in qualsiasi ambiente perché l’uomo non si fida del suo vicino di casa, del suo simile. Si affidano i propri figli a gente che deve essere controllata da un’entità esterna. Ma dov’è il senso in tutto ciò? Se non mi fido di nessuno sarà meglio tenere i miei figli a casa mia. Meglio fare la spesa online, parlare solo attraverso i telefoni e mettersi un casco per la realtà virtuale per andare a fare una passeggiata. 

Finiremo veramente tutti sorridenti e falsi per farci mandare più like possibili? Sarà la popolarità nei social a determinare il nostro status sociale? (la serie Black Mirror docet). Non voglio giudicare, ciò che succederà avrà un suo perché nel significato evolutivo della razza umana, ma di fronte a queste prospettive (che mi sembrano senza senso) scelgo allora di stringere forte le mani di uno sconosciuto e sentirmi parte di un universo vivo e pulsante guardandolo negli occhi. Finchè non arriverà, inevitabilmente il Matrix.


  

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