Tra le tante cattive abitudini che abitano il mio essere,
c’è quella di non credere in me stesso. Non sono un grande credente in
generale. Io dubito e ciò è sano, ma sono anche abilissimo a sottovalutarmi, ad
avere una visione di me lontanissima da quella che hanno le persone con cui ho
a che fare. Sempre peggiore. E non importa quanto autorevole, giustificata e
credibile possa essere la loro percezione, io mi sento sempre inferiore alla
media. Intendiamoci, non è che mi considero una completa merda (non più per lo
meno) ma ho serie difficoltà, quando mi guardo allo specchio, ad apprezzare ciò
che vedo sia fuori che dentro. Sono giorni nei quali rifletto sulle mie
abitudini, la maggior parte delle quali studiate a tavolino, costruite e
perfezionate nel tempo per alienare e distorcere ancora di più la percezione di
me stesso.
Questa visione mi ha portato a fare delle scelte, che, sempre in
questi giorni, stanno scavando un pozzo nero pieno di rimorso e sconforto. Quando
pensavo finalmente di aver raggiunto un equilibrio, una stabilità emotiva
pattinando su un lago ghiacciato di serenità, il ghiaccio si spacca ed io cado
nelle gelide acque dell’indecisione e del tormento.
Ho sempre percepito in me una vena artistica. Prima fra
tutte il canto ma anche la recitazione e la scrittura. A spingere queste
passioni ci sono state delle muse, dei maestri, delle guide tanto sagge da non
forzare mai la mano per far si che qualsiasi decisione fosse esclusivamente una
mia libera scelta. Ed io ho sempre
scelto di non seguire i loro consigli. Ovvio.
Le prime persone che hanno intravisto il mio talento per la
scrittura sono state la maestra Ivanna delle scuole elementari e la prof. di
italiano del liceo, Chiara (un’anima speciale) . Entrambe, scrivendo dei
racconti, mi avevano spinto a coltivare questo talento in quanto potente e inusuale
in un bambino e ragazzo della mia età. Ma ai tempi non ci feci caso, loro non
insistettero e io mi persi via in altro.
Oltretutto sono cresciuto con la
granitica convinzione che l’arte è un passatempo, non riempie la pancia e
soprattutto non nobilita quanto lo studio (vero) ed il lavoro. Come potevo mai
pensare di poter diventare uno scrittore, un attore o un cantante? Ma per
favore! Lo sai quanta gente ci prova, fallisce ed è comunque più brava di te? A 21 anni ho iniziato a lavorare, e per me ha
sempre caratterizzato una libertà fondamentale. Ho cambiato un sacco di aziende
perché non mi accontento e non sopporto le teste di cazzo ma MAI sono rimasto
senza lavoro o comunque senza un ingresso di denaro. Certo parenti e amici mi
hanno aiutato e continuano a farlo (w loro) ma ho sempre cercato di non dipendere
da nessuno. Che i figli non ripetano gli errori dei genitori. Per lo meno qualcuno
di essi.
Ogni volta, nel corso della mia vita, mi avvicinassi ad una
delle mie attività artistiche affini, dopo un percorso di studio, mi si chiedeva
di scegliere. Ho frequentato un corso di teatro amatoriale. Era la fine del
terzo anno di una dell’esperienze più belle e significanti della mia vita: lo
consiglio a tutti, anche a chi non crede di avere capacità interpretative. In
quell ambiente magico si sviluppa un’intimità ed una complicità che credo sia
impossibile rivivere nella quotidianità. Stavamo decidendo con Martin,
l’insegnante, di creare un gruppo indipendente che ogni anno avrebbe proposto
degli spettacoli alla comunità di Varese. Parlando di progetti mi disse
chiaramente e senza giri di parole con il suo peculiare accento argentino:
“Secondo me hai la stoffa dell’attore, però per farlo devi sbrigarti e
iscriverti ad un’accademia. A Milano ce sono alcune serie, ti posso aiutare per
l’ammissione. Tieni conto che dovrai frequentare tutti i giorni tutto il giorno.
Dovrai dedicarti completamente alla recitazione, la tua vita dovrà girare
intorno e dentro al teatro.” In quel momento fui molto lusingato, ci pensai su
ma non potevo mollare un lavoro “vero” per fare l’attore. Ma ti pare? Io?
Però
qualcosa scattò in me e decisi di avvicinarmi all'idea di vivere a contatto con
il mondo che tanto mi aveva affascinato. Lasciai il mio lavoro “SERIO” (o
forse era un periodo che gironzolavo tra librerie e block buster non ricordo) e
incominciai a lavorare per la compagnia teatrale che aveva organizzato il
corso. Un periodo felice: giovane ed entusiasta, facevo un lavoro a contatto
con l’arte, cantavo in un gruppo e stavo iniziando a prendere lezioni di canto.
Poi arrivò una chiamata dal mio vecchio lavoro; qui il cosmo mi mise alla
prova. Stavano cercando disperatamente gente qualificata da inserire il prima
possibile, si ricordavano di me e mi volevano di nuovo in ufficio.Subito. Era
il 2003 o 2004 credo. Io rimasi piacevolmente sconvolto dalla proposta: una
multinazionale mi stava richiamando dopo che io mi ero licenziato! Wow! Mi
sentivo super orgoglioso e, a 23 anni, quello che più mi importava era avere
soldi ed un lavoro che me li garantisse per un lungo periodo.
E così lasciai perdere l’idea dell’accademia di arte drammatica, mi tagliai
i “dreadlock” appena fatti con 8 ore di torture, e lasciai la mia vita da
artistoide senza certezze per tornare al “corporate”. Nel momento in cui avevo
incominciato a barcamenarmi assaggiando quell’arte dell’arrangiarsi tipica
degli artisti che stanno cercando la loro strada, il diavolo americano mi aveva
sussurrato all’orecchio e la sua voce suadente mi aveva subito reso schiavo. Di
nuovo.
Cosa simile successe studiando canto jazz. Dopo qualche anno,
la mia insegnante di cui ho spesso parlato in queste pagine, mi propose, mi consigliò
caldamente poi, mi minacciò alla fine di entrare in conservatorio. “Hai talento”
mi disse “hai le capacità, hai la possibilità di vivere di musica”. Aspetta,
stai parlando con me? Scusa? No grazie. In realtà pensavo che il suo autorevole
e rispettabilissimo giudizio sulle mie capacità canore fosse più dettato da un
affetto maturato negli anni e da un suo gusto personale che dalle mie oggettive
capacità tecniche ed interpretative. Non riuscivo e non riesco tutt’ora a credere
che io sia un bravo cantante, di essere sopra la media tra i milioni di talenti
in attesa di un riconoscimento. E qui la domanda: ma se mi sento un artista
mediocre e “banalotto” perché continuo a cantare?
La risposta me la sono data con l’ultimo concertino. Cantare
mi fa star bene e mi da un assaggio di quella realtà, di quella percezione che
è oltre il mero materialismo consumistico. E’, come ho già scritto in un altro
post, il mio veicolo verso lo spirituale. Cantare è la mia preghiera alle
divinità. Ed ero in pace con fatto di avere il mio momento di spiritualità pur
essendo solo un hobby, un’attività collaterale. Uno non deve necessariamente
rendere la propria passione un mestiere, l’importante è viverla. Almeno questo
credevo fino a Venerdì scorso.
Adesso un nuovo dubbio mi strazia: ma se uno ha talento, non
ha il dovere di onorarlo in tutti i modi possibili? E’ come avere un ottimo
Brunello di Montalcino e usarlo solo per cucinare il brasato. Ma io sono un
Brunello di Montalcino? O solo uno dei tanti Tavernello sullo scaffale di un
super mercato?
La crisi è iniziata Venerdì, appunto, durante la lezione di
canto. Ho preparato un brano abbastanza complesso e, mentre lo eseguivo, vidi
la mia insegnante fare dei sorrisini e abbassare lo sguardo come a voler
nascondere la vergogna. Mentre cantavo pensai “cazzo, dalla sua faccia starò
cantando proprio di merda!!! Chissà che scempio, ma sai che c’è ? sono qui per
imparare e per cui andiamo avanti e pigliamoci tutte le critiche!”. Non mi
sarei mai, mai, e ribadisco mai, aspettato la reazione entusiasta che ebbe quando
terminai di cantare. Mi ha elogiato e ancora una volta, una persona che stimo
tantissimo e la cui professionalità e competenza sono un esempio da seguire, mi
ha detto che ho talento, che so cantare, che trasmetto qualcosa che va oltre una
performance tecnicamente valida.
Secondo lei merito di vivere facendo il
cantante. So bene, memore dalle lezioni passate, che per lei ho una bella voce
e che canto bene, però sentire il modo in cui mi ha mandato a cagare
(bonariamente) per non aver fatto di questa capacità la mia priorità nella
vita, mi ha dato un pugno allo stomaco ed un calcio nei coglioni. Come se non
bastasse ha continuato dicendo che forse, forse, pur essendo un 36enne (quindi
vecchio per entrare in qualsiasi conservatorio), un possibile collegio di
ammissione potrebbe non tener conto della mia età a favore delle mie capacità.
E non una scuola qualunque, ma la Siena Jazz University. In quel momento, Venerdi
sera, dopo una giornata non idilliaca, durante la quale avevo già programmato
un fine settimana all’insegna del relax e delle grandi pulizie di casa, il mio
castello di carte è crollato miseramente. Sono andato da un’amica perché dovevo
raccontare a qualcuno la sconvolgente proposta, sono arrivato a casa e mi
veniva da piangere, e il mio ragazzo non poteva capire.
Ciò che mi ha distrutto
è il ricordo delle occasioni perse, la possibilità di sconvolgere la mia vita,
rigirarla come una calza appena uscita dalla lavatrice e finalmente, finalmente
dichiarare al mondo ma soprattutto a me stesso che io, Ivano ci credo e ce la
posso fare.
Ho passato due giorni orribili, utili forse, ma orribili.
Senza le mie costruzioni mentali, tanto fragili quanto confortanti, orfano del
mio maniero costruito su false fondamenta. Torri senza finestre e senza specchi.
Niente più saloni con altoparlanti giganti che ripetono ipnotici lo stesso
messaggio: “stai qui, ma dove vuoi andare? Hai la tua casetta, il tuo divano,
vieni, siediti. Il tuo dovere lo hai fatto, riposati, qui nel tuo castello. Non
muoverti. Rimani”. La proposta dell’insegnante ha spazzato via tutto e mi sono
trovato solo nudo e… senza scuse dietro alle quali nascondermi. Grazie anche
alla mia stabile relazione amorosa ero quasi riuscito ad incasellare, pigiare,
costringere, rinchiudere il mio essere dentro la scatolina che la società mette
a disposizione per tutti noi. Lavoro, casa, televisione, pizza, lavoro, casa
televisione, palestra, cinema, lavoro.
Ma adesso incomincio a tirare qualche somma, a scoprire
qualche filo che sembrava buttato a casaccio sul cammino ma che se preso in
mano e seguito, riconduce e da una chiave di lettura nuova ad alcuni momenti di
questo travagliato 2016. Primi fra tutti la mia situazione economica: ho tanto
cercato una stabilità che non ho mai raggiunto pur avendo sempre scelto il
LAVORO VERO. Una valanga di conti da saldare con il passato, sgradite sorprese,
insomma il 2016 è stato ed è all’insegna degli imprevisti economici.
Riavvolgendo il “gomitolo” ho capito che questo lavoro VERO
tanto perseguito e ottenuto non è garanzia di un cazzo se non di una continuità
sterile. Quello che cerchiamo nella vita è passione, soddisfazione, impegno e
gratificazione; traguardi che io non ho mai raggiunto con il lavoro VERO. Si,
mi sono raccontato qualche frottola e ci ho anche creduto, ma il sentirmi vivo
e pieno, proviene da altre esperienze. Non mi eccito timbrando il cartellino e
non mi sento pieno di vita compilando form in Excel (cugi). MI ha colpito molto
una frase che ha detto Gino, il marito di mia zia (non so perché ma non lo
chiamo zio). Ha i suoi 70 e passa anni, è una persona tranquilla, gentile e
riservata.
Mangiando una pizza mi ha detto: “curiosa la vita; quando siamo nel
pieno delle nostre forze dobbiamo fare un lavoro che per lo più non ci piace e
quando siamo vecchi e stanchi abbiamo tutto il tempo di realizzare i nostri
sogni. Non sarebbe meglio al contrario? “.
Non è forse ora, adesso, subito, che
vale la pena lottare e investire per ciò in cui crediamo invece di dedicare
quasi tutto il nostro tempo e le nostre forze per far arricchire qualcun altro
solo per andare al supermecato e pagare l’affitto? E la vita non mi ha forse
dimostrato che quando c’è da rimboccarsi le maniche per perseguire un sogno o
realizzare un progetto nel quale ci si mette l’anima il cosmo ti viene
incontro? Sempre?
La stabilità,
l’equilibrio nella vita, non è data dallo stipendio, ma dalla propria
soddisfazione attraverso l’affermazione di sè stessi. Anche solo scrivere
queste parole mi fa venire un tic nervoso all’occhio destro. Però ci credo. Ma
è fuor di dubbio, che pur avendo entrambi un lavoro a tempo indeterminato,
siamo sempre senza soldi, abbiamo sempre debiti da pagare a ciclo continuo
(concluso un debito ne inizia subito un altro neanche esistesse una catena di
montaggio per debiti di Arca Ivano) e spesso siamo in bancarotta. Che questa
scimmia per il posto fisso, il LAVORO VERO sia una scusa per paura di mettermi
davvero in gioco? Forse è per questo che non ho particolari problemi a
licenziarmi da un posto di lavoro, non vivo lo stress da impiegato come tanti
colleghi, perché per me non ha un valore significante; il lavoro non determina
chi sono e come sono. Lo faccio perché devo.
Il lavoro è necessario per mantenersi ma
soprattutto per essere indipendenti dal punto di vista economico (nella mia
famiglia ho un pessimo esempio di dipendenza economica che non mi permette di
dipendere a mia volta), ma non da e non aggiunge significato alla mia vita.
Eppure è il luogo dove passo più tempo. E vale la pena spendere la maggior
parte della mia vita in un ambiente che non mi da nulla ? Che non mi
arricchisce, che non mi mette alla prova, che non mi da l’occasione di crescere
e migliorare? Ovviamente no.
Ci sono delle forze, in questo periodo, sento come un
movimento cosmico di pianeti e costellazioni intorno a me. Sento quel famoso
WIND OF CHANGE (vento di cambiamento) cantato dagli Scorpions che mi spingono a
investire sul mio lato artistico per vivere di esso, sempre immmerso in ciò che
mi da soddisfazione, mi fa sentire vivo e mi smuove fin nelle viscere. Ma che
cazzo di folle paura! E poi adesso che avevo già ordinato la poltrona che ti
alza in piedi da solo con super pantofola??? Dai!!!!!
D’altro canto io al momento non vivo male, il problema è che
non vivo appieno. Il lavoro che ho adesso è piacevole, era da anni che non
trovavo un ambiente abbastanza rilassato,
senza nessuno che mi spacchi le palle. Comunque faccio musica, tra poco
inizierò un corso sulla scrittura creativa come “co-condutttore” (il co-co mi
fa riderissimo). Insomma, in qualche modo mi sto muovendo verso l’arte, con dei
compromessi dettati dalle mie rigidità, da quegli insegnamenti che sono
marchiati a fuoco sulla mia pelle, che sono stati iniettati nella mia spina
dorsale da piccolo. Però c’è un sentire che non mi molla e che mi spinge, mi da
degli scappellotti, mi gira intorno facendomi lo sgambetto e mi sputa in faccia
ringhiante “NON BASTA, NON BASTA, DI PIU’, DI PIU! NON BAGNARTI I PIEDI,
TUFFATIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII!’”.
Anche perché altrimenti non riuscirei a
spiegarmi il profondo disagio, il dolore, che ho provato Venerdi quando la mia
insegnante mi ha proposto il calvario della preparazione all’esame di
ammissione alla Siena jazz University. Per farlo dovrei studiare, oltre al
canto ovviamente, armonia (non so neanche bene cosa sia; partiamo bene). Ho
guardato sul sito e la prova consiste in una serie di esercizi che adesso non
sono assolutamente in grado di affrontare eppure hanno chiamato il mio
interesse, hanno catturato la mia attenzione e curiosità con la voglia
dell’archeologo di decifrare qualche rara iscrizione trovata sotto tonnellate
di sabbia. Ma il problema è che debba investire gran parte del mio tempo libero
per prepararmi decentemente e non so se voglio farlo.
Da una parte mi sento un
po’ ridicolo rimettermi a studiare (anche se sarebbe studiare qualcosa che mi
appassiona forse per la prima volta in vita mia) a 36 anni. E poi c’è il grande
dubbio: e se mi prendono? Che cazzo faccio? Dovrei frequentare un’università a
Siena per almeno 3 anni, con obbligo di frequentazione di 2 giorni alla
settimana (non i week end). E, ciliegina sulla torta, 2000 euro l’anno.
Allora penso: potrei prepararmi per l'esame, vedere se lo
supero e lì, solo in quel momento, decidere il da farsi. Inutile fare un
groviglio di 10 problemi quando se ne può analizzare uno per volta. Ma questo
implicherebbe comunque togliere del tempo al mio ragazzo e ai miei amici (dopo
aver passato la maggior parte della giornata chiuso in un ufficio) e far
sbattere la mia insegnante forse inutilmente.
Mi rendo conto, che un’altra cattiva abitudine che mi appartiene
è la mancanza di dedizione, di costanza, di pazienza. Quello spirito di
sacrificio necessario al successo personale, quella preparazione tecnica che
poi ti permette di fare una maratona. Sullo studio io sta roba non ce l’ho.
Posso allenarmi in palestra tutti i giorni con una costanza militare, posso
leggere un romanzo in tempi record, riesco a studiare guide per giochi della
playstation che varrebbero una laurea ad honorem, mi applico sul lavoro come se
da esso dipendesse la salvezza del pianeta, ma non chiedermi di studiare per me
stesso. Anche questa cattiva abitudine è da ricondursi, credo, ad una certa
disistima personale.
Forse non mi permetto di avere successo in quegli ambiti
che davvero mi interessano per confermare il mio essere banale, uguale a tanti
altri o addirittura inferiore. Forse il mio confermare di non essere speciale, contraddice
quanto creduto da mia madre, che, quando ero piccolo (senza voler condannare nessuno ovviamente) ha creato su di me delle aspettative impossibili da
sopportare. Il mio mollare è stata la mia via di fuga per sentirmi di nuovo
leggero. Il mio deludere gli altri è stato il mio salvacondotto. Non rompetemi
il cazzo perché sono una merda ok?
Ma ora il gioco non funziona più perché so di avere talento (davvero?),
so di potercela fare (da quando scusa?), so di poter avere successo (personale intendo non
commerciale) se davvero mi sforzo per ottenerlo. La vita mi insegna ogni giorno
che le scorciatoie non esistono, che non ci sono accessi preferenziali, almeno
non per me ma credo anche per nessuno. Probabilmente una lezione karmica che
devo imparare in questa vita è che bisogna dare il massimo per ottenere
soddisfazione. Non esistono i compromessi. O tuto o niente.
Il sacrificio
temporaneo è direttamente proporzionale al grado di realizzazione. Semina e
cura le tue piante oggi per raccogliere dei frutti domani. Se le compri già
adulte e le piazzi nel giardino, per lo meno abbi la consapevolezza di prenderti
per il culo e di aver saltato una parte fondamentale del processo di crescita e maturazione.
Le cattive abitudini vanno riconosciute ed abbracciate prima; poi vanno prese a calci in culo fino a trasformarle in occasioni per realizzare sè stessi.
Scriverlo è stato semplice.
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